Enrico Lagattolla
Due donne a confronto. In aula, Slavica Markovich e Caterina Maiocchi. La prima, madre di Mihilo, il montenegrino che il 13 aprile di due anni fa tentò assieme a un complice una rapina in una gioielleria di via Ripamonti, e venne ucciso da un colpo di pistola. La seconda, sorella di Giuseppe e zia di Rocco, che proprio per la morte di Mihilo sono accusati di concorso in omicidio volontario e di porto illegale darmi. Due testimoni del processo, due facce dello stesso dramma.
Inizia Slavica. E racconta che «non sapevo cosa facesse mio figlio in Italia, mi diceva che la situazione era difficile, e che ogni tanto faceva qualche lavoro di fatica». Della morte di Mihilo racconta di aver saputo per telefono. E che il figlio «doveva pagare laffitto, non trovava lavoro, e allora ha fatto quel furto». «Io insegno in un liceo classico - aggiunge - il mio ex marito è ingegnere forestale. Mio padre è presidente di un tribunale. Siamo brava gente e non abbiamo mai avuto problemi con la giustizia». Finita la testimonianza, va via. «Sono stanca - dice -, oggi le emozioni sono state tante».
Subito dopo, inizia Caterina Maiocchi. Seduti a un metro da lei, Giuseppe e Rocco. Padre e figlio, uno accanto allaltro. Solo una volta incrociano lo sguardo. Poi la donna comincia a parlare, con voce incrinata. «Ero allinterno della gioielleria, quando ho sentito un forte colpo, poi un altro ancora più forte. È lì che ho cominciato ad avere paura.
«Allora ho cominciato a urlare - prosegue, senza che il pm la interrompa -. In quel momento sono arrivati mio fratello e mio nipote. Giuseppe è uscito in strada, e con lui Rocco. Sono rimasta da sola nel negozio. Poco dopo ho sentito degli spari». «Ma non li ho visti sparare», ripete per quattro volte.
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