Politica

«Rapita da due italiani, pensavo di morire»

nostro inviato a Pisogno (No)

«Dimentica, dimentica tutto, altrimenti ci rivediamo». Ci sono congedi più amicali, certo. E meno minacciosi, sicuramente. Eppure è stata questa la frase che ha restituito il sorriso a Barbara Vergani, 24 anni, ultima di tre rampolli di buona famiglia, rapita sabato sera e tenuta in catene da una coppia di incappucciati per ventisei ore. Barbara l'ha sentita poco dopo le 23 di domenica, quella frase, e solo allora, solo quando i suoi due carcerieri l'hanno abbandonata alle propaggini di un bosco a Ghemme, quindici chilometri da casa, ha capito che l'incubo era finito per davvero. «Aspetta cinque minuti e poi vattene. E perdona, perdona», le ha sussurrato all'orecchio l'altra metà della banda, una donna, anche lei italiana come il complice, ma dall'accento che a Barbara è parso camuffato ad arte. Una camminata a passo svelto, nel buio della notte, con l'ultimo groppo in gola, metti un nuovo brutto incontro, e poi la luce. I fari che illuminano la strada : un'auto con quattro persone che tornano da una cena in un agriturismo e che subito l'accolgono a bordo. «Sono Barbara, la ragazza rapita, devo avvisare mio padre che mi hanno liberata, che sono salva e sto bene».
Sì stava bene, benone, Barbara, quando, ieri mattina a casa si è affacciata al cancello, un po' da ranch texano, e ha cominciato a ripassare ad alta voce, per la gioia dei giornalisti, il film del suo sequestro-lampo. «All'inizio ho avuto paura, molta paura. Ho temuto anche di morire perché non avevo idea di cosa mi sarebbe accaduto. Loro mi ripetevano, di stare tranquilla e che erano interessati solo ai soldi di mio padre. Erano incappucciati e mi hanno subito bendata, per cui non li ho mai visti. O meglio più tardi, nel loro covo, sono riuscita vedere le loro ombre, l'uomo era magro e più alto di me, sui 25-30 anni, lei invece aveva una corporatura media ed era più piccola di me. Quando mi hanno rapita, sabato, ho fatto appena in tempo a salire in auto e a mettere le chiavi nel cruscotto, non avevo ancora messo in moto, ero parcheggiata per cui non avevo vie di fuga. Mi sono chiusa dentro quando ho visto un uomo venirmi incontro, ma lui ha rotto il vetro mentre su un'auto c'era un complice alla guida». Armi? «Mi hanno puntato le pistole per costringermi a entrare in macchina. Non siamo andati molto lontano. Sembrava che non sapessero nemmeno come mi chiamavo. Solo dopo aver visto un tiggì nel loro nascondiglio mi hanno chiesto se io mi chiamavo Barbara».
Si stiracchia, allungando il suo bianco manto pezzato sulle beole che conducono all'ingresso, Lollo il gatto di famiglia. Sbadiglia, pare annoiarsi da quel racconto che sembra ormai superato dal lieto fine. Qualcuno richiama Barbara e lei torna in casa. Ma solo per una decina di minuti. Poi, sempre per la felicità di cronisti cui dispensa raggianti sorrisi, torna, jeans e un giubbotto verde in cui si stringe a mo' di coperta di Linus. Accanto l'inseparabile amica Erika, che non sa dove piazzare il gigantesco mazzo di fiori che Andreina, un'altra amica, ha appena recapitato nella villa al civico 11 di via della Vittoria. «Non mi hanno maltrattato, avevo acqua e cibo. Mi hanno legato le gambe con delle catene ad un anello di ferro attaccato al muro - riprende Barbara - mentre le braccia erano legate con del nastro a una catena che passava sotto il materasso. Avevo lo scotch sugli occhi ma nei momenti in cui mi hanno lasciato sola lo spostavo per darmi un'occhiata intorno Era una stanza con un lettino, sembrava una stanza preparata apposta per la prigionia. Dietro al letto sono riuscita a vedere una parete di pannelli un po'strana che ho disegnato ai carabinieri. Forse serviva a dividere la stanza dalle scale che portavano al piano di sopra, dove mi è sembrato che ci fossero dei bambini. Una stanza con la moquette per terra e un letto, circondato da tre paraventi. Chissà, forse era un appartamento all'interno di un condominio, al primo o al secondo piano, perché quando sono arrivata ho dovuto fare delle scale».
È tutto, o meglio quasi tutto. Perché manca, secondo il trend, il capitoletto sul perdono. Che Barbara e il padre Carlo recitano all'unisono: «Certo non hanno fatto una cosa giusta - dice la ragazza - ma non provo né rabbia né rancore». «Per me sono già perdonati, spero solo che si ravvedano» - aggiunge il padre, Carlo Vergani - anche perché le persone che hanno rapito mia figlia erano solo esecutori. Non ho sospetti in quelle 26 ore nel mio cervello è passato di tutto e l'ho raccontato a polizia e carabinieri. Chi pensava che io potessi pagare quattro milioni di euro si è bevuto a cervello». Può bastare così, dice il colonnello Pasquale Capriati, comandante provinciale dei carabinieri di Novara.

Che invita tutti a rompere le righe.

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