Rapporto Irak, la sfida a tutto campo di Bush

Livio Caputo

La pubblicazione del rapporto bipartisan Baker-Hamilton sul modo migliore per uscire dalla palude irachena ha creato negli Stati Uniti una situazione paradossale e piena di incognite. La commissione presieduta dall’ex segretario di Stato di Bush padre ha infatti formulato, sulla base di una diagnosi molto pessimistica della situazione a Bagdad, una serie di proposte in aperto contrasto con l’attuale politica dell’amministrazione e avvertito che esse non possono essere adottate separatamente, ma devono essere accolte o scartate in blocco. Il presidente ha replicato che prenderà il rapporto in seria considerazione, ma ha già respinto i due suggerimenti più indigesti: l’apertura di un negoziato diretto con Siria ed Iran («Prima di sedersi a un tavolo con noi, devono rispettivamente cessare il loro sostegno a Hezbollah e rinunciare al programma nucleare») e il ritiro entro quindici mesi delle truppe americane dalla prima linea, affidando la lotta contro l’insurrezione al nuovo esercito iracheno. Prima di decidere il cambio di rotta imposto dall’andamento della guerra George W. intende comunque attendere altre tre relazioni, dal Pentagono, dal Dipartimento di Stato e dal Consiglio di sicurezza nazionale, che conterranno raccomandazioni diverse, e su certi punti addirittura opposte, a quelle di Baker e Hamilton. Ma una cosa è già evidente: mentre il rapporto bipartisan punta a un compromesso diplomatico teso a limitare i danni, il presidente è ancora convinto che gli Stati Uniti possono vincere una «guerra del bene contro il male» e non devono scendere a compromessi in aperta contraddizione con la linea attuale, patrocinata dalla sua pupilla Condoleezza Rice. Sembra che, in privato, sia molto risentito con Baker e abbia definito il suo rapporto «anacronistico». Tuttavia, quando avrà visto tutte le carte ed enuncerà la sua nuova strategia non potrà non tenere conto sia della necessità di un qualche accordo con la nuova maggioranza democratica nei due rami del Parlamento, sia degli umori del Paese, che nelle elezioni di medio termine si è espresso per un cambio di rotta.
Il rapporto Baker-Hamilton ha comunque già avuto una eco globale, che a sua volta avrà ripercussioni a Washington. In Europa, è stato accolto quasi ovunque con favore, anche perché riprende non poche delle critiche che vari Paesi dell’Unione hanno mosso alla politica della Casa Bianca. Israele, che assiste con preoccupazione al ritorno sulla scena di Baker, notoriamente mal disposto nei suoi confronti, e teme di dovere pagare il prezzo di un eventuale accordo con Siria ed Irak, ha invece già espresso il suo dissenso e messo in guardia contro ogni tentativo di «palestinizzare» il conflitto in Irak: «Molti problemi del Medio Oriente - ha avvertito il premier Olmert - non hanno nulla a che vedere con noi e chi crede che imporci un accordo metterebbe tutto a posto si fa solo illusioni». Lo Stato ebraico è soprattutto allarmato dalla voce che Baker, forse influenzato dai suoi colloqui con esponenti siriani, iraniani e sauditi, punterebbe addirittura a una grande conferenza sul Medio Oriente senza Israele.
Gli estremisti palestinesi, al contrario, hanno salutato il rapporto come una grande vittoria, come la prova che «la resistenza islamica funziona» ed è in grado di piegare perfino la superpotenza. Non è probabilmente un caso che, 48 ore dopo la pubblicazione delle 79 «raccomandazioni» di Baker e Hamilton, il premier Haniye abbia ribadito che Hamas non riconoscerà mai Israele e intende continuare la lotta fino alla totale «liberazione» della Palestina.
È vero che il «grande compromesso» suggerito da Baker e Hamilton prevede una serie di paletti, che lo rendono di problematica realizzazione. Non è affatto detto, per esempio, che a questo punto Siria e Iran siano disponibili a collaborare alla stabilizzazione dell’Irak senza porre condizioni inaccettabili; altrettanto dubbio è che le forze armate irachene siano all’altezza dei compiti che il rapporto vorrebbe loro affidare in tempi brevi. L’impatto del rapporto, divenuto subito un bestseller nelle librerie, sull’opinione pubblica americana, ha reso comunque ancora più delicata la posizione del presidente, che, secondo indiscrezioni, avrebbe intenzione di annunciare le sue scelte già prima di Natale. D’ora innanzi, George W.

non dovrà misurarsi solo con i democratici, ma anche con il clan dei vecchi collaboratori di suo padre, di cui Baker è il capofila ma di cui fa parte anche il nuovo titolare del Pentagono, Robert Gates.

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