«L’arte, il denaro, l’amore, il rapporto col padre, la morte, il lavoro sono solo alcuni dei temi di questo romanzo, decisamente classico eppure, evidentemente, contemporaneo» si legge sul risvolto di copertina italiano dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, La carta e il territorio, e se vi chiedete cosa significhi «decisamente classico» e «evidentemente contemporaneo» chiedetelo alla Bompiani, non ne ho idea. Sui temi ci hanno preso, perché valgono per qualsiasi romanzo, dalle stelle alle stalle, da Shakespeare a Balzac a Dostoevskij all’ultimo Veltroni. Comunque sia, per me è un enigma: ogni volta che esce un romanzo di Michel Houellebecq lo attendo al varco con molte aspettative, ogni volta ne rimango deluso, ogni volta mi dico che era meglio il precedente, e fatto sta che ogni volta lo leggo dall’inizio alla fine aspettandomi un salto e, leggendolo, non smettendo di chiedermi perché lo leggo.
Non è avvincente come un romanzo di genere né ha la scrittura di un grande scrittore. Delle polemiche giornalistiche sui plagi da Wikipedia chissenefrega, Proust avrà fatto copia e incolla di interi discorsi dei salotti parigini o della sua amica Madame Straus senza che quei discorsi avessero un minimo valore prima di finire nella Recherche e diventare un’opera d’arte, e questo vale tanto in letteratura quanto per l’orinatoio di Duchamp. Tuttavia Houellebecq non è Proust, e non è neppure uno scrittore francese: qui è più vicino alla descrizione dell’insensatezza e dell’inerzia di vivere che si trova negli ultimi romanzi di grandi scrittori americani, da Richard Ford a Philip Roth, il racconto di vite senza senso, estenuate, stanche, consapevoli del nulla della vita, con i quali, però, regge poco il confronto.
Il protagonista è un pittore, Jed Martin, che finirà per incontrare lo stesso Michel Houellebecq, per chiedergli la prefazione di un catalogo, prima che lo scrittore stesso finisca assassinato e sulla sua morte indaghi il commissario Jacelin. Tre storie e tre personaggi che hanno trovato un autore e si insabbiano gli uni negli altri, il pittore nello scrittore, lo scrittore nel commissario, terminando a imbuto in un epilogo più ammosciante dell’inizio. Infatti, tolta la rappresentazione stereotipata del corrotto mondo dell’arte, le pagine più interessanti sono quelle dove compare lo stesso Houellebecq e la sua visione del mondo disillusa, terminale, la sua consapevolezza dell’inutilità di qualsiasi cosa. «Non è successo nulla di quanto speravo in gioventù. Ci sono stati momenti interessanti, ma sempre difficili, sempre strappati al limite delle mie forze, non mi è apparso mai nulla come un dono e adesso ne ho proprio abbastanza, vorrei solo che tutto finisse senza sofferenze eccessive, senza malattie invalidanti, senza infermità». Neppure l’arte conta qualcosa, in assoluto, «neppure Picasso aveva un senso; ancora meno forse, per quanto si possa stabilire una graduatoria della mancanza di senso». Non resta che rimpiangere ciò che non c’è più, le illusioni perdute, per gli amori passati, la giovinezza, l’infanzia, o perfino per un parka Camel Legend ormai fuori produzione, benché siamo tutti dei prodotti, incluso l’essere umano con la patetica illusione di una sopravvivenza nei figli, quando invece «anche noi verremo colpiti da obsolescenza. Il funzionamento del dispositivo è identico - a parte che non c’è di solito nessun miglioramento tecnico o funzionale evidente; rimane solo l’esigenza della novità allo stato puro».
Peccato che non vada a fondo, Houellebecq, ogni punto nevralgico viene abbandonato appena sfiorato. Peccato che non laceri la tela come Marcel Duchamp il suo ultimo quadro, e al contrario confezioni un romanzo molto narrativo che gira a vuoto e potremmo acclamare solo se lo scrivessero Ammaniti o Scurati o Saviano, e di questo uomo allo specchio ci si debba accontentare di piccoli spunti, piccole intuizioni, piccole visioni. Come quando, rintanato nella sua casa spoglia, spettinato, non lavato, e in stato di isolamento e delusione totale, il personaggio Houellebecq scrittore dichiara: «Ho delle micosi, delle infezioni batteriche, un eczema topico generalizzato, è una vera infezione, sto marcendo e tutti se ne sbattono, nessuno può fare nulla per me, sono stato vergognosamente abbandonato dalla medicina, che cosa mi resta da fare? Grattarmi, grattarmi senza sosta, ecco cosa è diventata la mia vita adesso: un interminabile grattamento». Sarebbe stato un capolavoro, se il centro del romanzo fosse stato la vivisezione di questo interminabile grattamento (perché le speculazioni sul capitalismo del pittore Jed Martin fanno sbadigliare), se Houellebecq avesse portato all’estremo la coincidenza genetica, senza speranza, tra il destino umano e il destino animale (cosa a cui si accenna nelle diverse analogie tra uomo e animale disseminate nel romanzo), se avesse sviscerato questa condizione inumana, postuma e senza speranza dello scrittore in quanto coscienza estenuata dell’umanità.
Ma Houellebecq avrebbe dovuto essere Bernhard o Beckett, invece non affonda mai nella disperazione reale, e alla fine ricama a uncinetto un romanzo innocuo nella lingua e nella trama simile a un centrotavola nel quale a grattarsi è solo il lettore.
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