Dopo i figli assassini (We need to talk about Kevin di Lynne Ramsay), le «fanciulle in fiore» usate come oggetti sessuali (Sleeping Beauty di Julia Leigh), i ragazzi malati terminali e quindi a loro agio con lidea della morte (Restless di Gus Van Sant, comunque molto bello), Cannes prosegue su questo filone che alterna nello spettatore la commozione, lorrore e, come nel secondo dei film citati, la noia e manda in campo e in concorso Polisse di Maïwenn Le Besco.
Qui sono di scena gli abusi sessuali e le violenze ai minori visti dalla parte di chi dovrebbe prevenirli, scoprirli e/o punirli, ovvero la BMP (Brigade de Protection de Mineur) section Nord di Parigi, la banlieu della capitale con il suo carico di etnie diverse, disoccupazione, criminalità.
La regista si chiama Maïwenn, ma il suo vero nome è Maïwennn Le Besco, figlia del poeta vietnamita Nam Phan Lai Tutuoc, scampato alluccisione dei genitori da parte dei comunisti nel 1970 e adottato da un famiglia americana da cui ha poi preso il nome, e dellattrice Catherine Belkhodja, nonché ex moglie del regista Luc Besson.
Maïwenn ha debuttato come stilista una quindicina danni fa, ha oggi alcuni film alle spalle (Pardonnez-moie Le bal des Actrices), e appartiene insomma a quel milieu intello-cosmpolita molto noto in Francia.
Più che il soggetto, ciò che fa linteresse di Polisse (molto ben recitato) è il punto di vista scelto per raccontarlo, ovvero la polizia al di fuori del solito ruolo di tutrice dellordine, onesta o corrotta, violenta o gentile, ma in quello di chi quotidianamente ha a che fare con bambini, gli abusi di cui sono vittime, i traumi che ciò comporta.
Nella realtà, dopo alcuni anni di servizio nella Brigade de Protecion, chi ne fa parte viene di solito spostato di sezione, perché il peso del lavoro diventa praticamente insostenibile. Il film lo fa capire.
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