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Il re del box-office nella scia di Faletti: diventa romanziere

Il giovanissimo divo ha ricevuto un anticipo di centomila euro per il suo primo libro, scritto con la sceneggiatrice Carla Vangelista. Un progetto che si trasformerà in un film diretto dallo stesso attore

Michele Anselmi

da Roma

Che dietro ogni attore si nasconda uno scrittore? Dipende. La notizia è che, dopo Leonardo Pieraccioni e Fabio Volo, Luciana Littizzetto e Giorgio Faletti, anche Silvio Muccino, fratello minore di Gabriele e golden boy del cinema italiano, s’è messo al computer per vergare il suo primo romanzo. Scritto a quattro mani, insieme alla sceneggiatrice Carla Vangelista. Non per pigrizia. Nel senso che il progetto, tenuto top secret anche in vista di una possibile trasposizione cinematografica, diretta dallo stesso Muccino, presuppone la doppia firma: raccontando i due punti di vista, maschile e femminile, su un’appassionata storia d’amore (e non solo) tra un ventenne e una quarantenne. Non pensate a un remake di Grazie zia o qualcosa di simile. Le ambizioni degli autori sono più alte, tra riferimenti epistolari a Cyrano e sguardi socio-antropologici ai due mondi di riferimento che finiranno inevitabilmente per collidere.
Inutile chiedere conferme agli interessati, per altro oggetto, nelle ultime settimane, di un malizioso gossip sviluppatosi su un noto sito di informazione cinematografica. Però una cosa si sa: sul filo di lana, con una ricca anticipazione da centomila euro, la Rizzoli ha soffiato alla Mondadori i diritti del romanzo, che dovrebbe uscire a dicembre. Titolo? «Ancora non c’è e non lo riusciamo a trovare»: di più Carla Vangelista non dice. Aggiunge solo: «Stiamo scrivendo». Più lei che lui, pare di capire.
Lui, ventiquattro anni compiuti il 14 aprile, otto film da attore già dietro le spalle, starebbe attraversando un momento difficile, da crisi di crescita. Divo acclamato di una certa neo-commedia popolare, prototipo generazionale, giovane Werther riveduto e corretto, fors’anche icona fisica e verbale, Muccino spiega ai giornalisti: «Una volta ero fiducioso e aperto verso le persone, ora sto alzando dei muri, che servono a proteggermi». Vanity Fair gli ha da poco dedicato una copertina, dentro l’intervista aveva come titolo: «Quante botte vi darei». Ne usciva l’immagine, chissà quanto autentica, di un giovanotto sensibile e vulnerabile, facile all’ira, pronto anche alla rissa, per sofferenze amorose, di fronte all’impietoso commento di un passante per strada: «’A Muccì, ma che cazzo c’hai da piagne?».
Sono bastati due film con Giovanni Veronesi, Che ne sarà di noi e Manuale d’amore, e soprattutto il recente Il mio miglior nemico, accanto a Carlo Verdone (quasi venti milioni di euro al box office), per proiettarlo nello star-system. Muscoli ben scolpiti, orecchino malandrino, pantaloni militari e frangia sugli occhi, il giovanotto, rivelatosi nel 1999 con Come te nessuno mai, nel frattempo ha preso lezioni da un logopedista per addolcire la famosa zeppola che tanto contribuì al successo presso le adolescenti. Il tenero intoppo verbale ora non c’è più, ma la lingua continua a saettare dalla boccuccia malandrina, evocando un imbarazzo un po’ maldestro, una scaltrezza dai tratti petulanti (così l’ha affettuosamente parodiato in tv Max Tortora).
Che sullo schermo si chiami Matteo, Tommaso od Orfeo, poco cambia: Muccino conquista per sfinimento le ambìte prede femminili, aggirando disoccupazione e sfighe varie, conti da pagare e genitori separati. Sarà anche per questo che piace tanto a pubblico e produttori. Incarna la faccia pulita/inquieta di una certa gioventù urbana, naturalmente no-global e anti-Bush (50 Cent è il suo rapper preferito). Da attore che non vuole diventare una cometa, ripudia «bassezze e beceraggini», da uomo politically correct vede la donna «non come un’antagonista, bensì come fonte di felicità assoluta».
In termini di box-office, Muccino è una sicurezza. Difatti Aurelio De Laurentiis l’ha messo sotto contratto per un terzo film, che però forse non si farà. Doveva chiamarsi Emozioni o Tutto e subito, scritto di nuovo insieme a Veronesi. Al terzo cimento la coppia s’è divisa. I due, regista e attore, non si parlano al telefono da mesi. Fino a qualche tempo fa Veronesi dipingeva affettuosamente Muccino come «un cucciolo di rottweiler che mi svuota il frigo», e insieme come un professionista inappuntabile sul set: «Non fa bizze se lo riprendi da destra o da sinistra, sa scrivere. Silvio in realtà ha settantadue anni, per come si destreggia tra lampade e cavi è un comico che non ha più niente da imparare». Oggi non vuole dire una parola sul «divorzio».
E intanto il giovanotto, l’aria da imbranato che la sa lunga, tra Jacopo Ortis col preservativo in saccoccia e Johnny Depp con qualche anno in meno, esprime in ogni occasione un certo malessere. Non s’è presentato all’incontro al Quirinale tra Ciampi e i finalisti del David, provocando il disappunto dell’amico Verdone (pare stesse girando una pubblicità quel giorno); ha abbandonato la sua storica agente Valentina Conti per farsi seguire dall’avvocato Roberto Minutillo, lo stesso di Carla Vangelista; teme di cristallizzarsi nel ritratto generazionale del ragazzo coi «capelli a fungo», facile al cliché e ai bagni di folla, per questo starebbe meditando la svolta, a costo di rimetterci qualcosa sul piano dei contratti.

Del resto, presentando Il mio miglior nemico, teorizzava: «Non possiamo prendere gli aerei perché potremmo morire, non possiamo mangiare pollo perché potremmo morire, non possiamo fare l’amore perché potremmo prendere l’Aids e morire. Tutto, la famiglia, il lavoro, il mondo intero vive nella precarietà. Allora ben vengano le famiglie aperte che non sono quelle biologiche, dove ci si può ritrovare». Chi vuole intendere...

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