Pensare che non gli è rimasto niente di lui, nemmeno una foto. Niente tranne quel video, Battisti e Mina che cantano insieme e lui dietro Lucio, al basso, inquadrato fisso, come un'ombra, un video cult, magnifico e irripetibile. E nemmeno se lo ricorda «Abbiamo fatto tante cose insieme, serate, dischi, tv. Ma sei sicuro che sono io?» Ecco, neanche lo ha visto.
Era un ragazzino Bruno Longhi, vent'anni appena, faceva l'università, scriveva canzoni e suonava la chitarra. Abitava a trecento metri da casa di Lucio, lavoravano per la stessa casa discografica, la Numero Uno, fece presto a diventare uno della banda Battisti: «Anche se c’è voluto un po’ per entrare nel suo mondo: era diffidente, perfezionista, rompipalle». Ma una volta dentro tutto cambiava, un’amicizia che passava attraverso codici segreti: «Allora non c'erano telefonini, avevamo inventato un sistema per seminare gli indesiderabili: tre squilli a vuoto volevano dire che a chiamarlo era uno dei suoi. Sistemavamo persino i pezzi al telefono. Per prendermi in giro mi chiamava De Longhis... ».
E lavorava, senza saperlo, nel futuro. «Lucio era avanti anni luce. Prendi i ragazzini di oggi: cantano le sue canzoni come se le avesse scritte ieri mattina. E invece sono di trent’anni fa. Suonare con lui era magico. È come i Beatles, come Cruijff». Merito anche di Mogol: «Non conosceva una riga di musica, ascoltava una cosa e trovava subito le parole giuste, mai banali, perfette». Ecco Mogol, appunto: «Sono io quello che lo ha rincoglionito con il pallone. A vedere la sua prima partita l’ho portato io, era un Inter-Atalanta di coppa Italia, nemmeno sapeva cosa fosse il calcio, poi è diventato matto. Diciamo che la nazionale cantanti nella testa gliel’ho accesa io». Si allenavano dalle parti di Molteno, i ragazzini dell’oratorio da un giorno all’altro si videro spuntare gente come Pappalardo, Tony Renis. E Lucio Battisti. «Giocava in porta, con cappellino, guanti e ginocchiere. Una volta gli faccio quattro gol, uno sotto le gambe. A De Longhis nun stà a cantà vittoria, mi grida, perché se mi ci metto a fare una cosa poi ce riesco...».
Anni così, fatti di ore negli studi di incisione. C’è Bruno nell’lp Il mio canto libero, è suo il primo basso de Il tempo di morire, Motocicletta 10 hp. Ridevano sempre, soprattutto al bar. «Arrivava con la Duetto e il foulard rosso. Toccava sempre a me offrirgli il caffè. Poi un giorno mi dice: lascia stare De Longhis, stavolta pago io. Andò alla cassa: pago un caffè, grazie... ». Poi ognuno per la sua strada: «Dopo sposato era diventato invisibile, andò in Inghilterra e non lo vidi più». Bruno invece cambia vita, passa alle radio private e da lì al giornalismo, da basso diventa voce solista del calcio.
Un giorno, dieci anni fa giusti, è sull’autostrada, direzione Parma, quando lo chiama Monica Gasparini. Dice solo: è morto Lucio. «Mi sono fermato alla prima area di parcheggio e non ho smesso un attimo di piangere». Come cantava lui: nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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