Una mattina di un anno fa Gabriele Lavia, a Milano, camminava (occhio alla toponomastica: è indicativa) lungo via Giorgio Strehler, diretto al Teatro Strehler. «Proprio allora mi squilla il cellulare. Era Francesco Siciliano, presidente del Teatro di Roma. Ci vediamo a pranzo?. Dopodiché al Santa Lucia, il ristorante degli attori, mi spara: Vorrei che inaugurassi la nostra stagione col Re Lear. Ma tu sai - replico io - che il Re Lear ho giurato di non farlo mai più in vita mia?. E lui: Appunto per questo te lo chiedo. E io: Ma tu sai che cos'è il Re Lear?. Certo che lo so, replica lui. Beh - ribatto - io invece ancora non l'ho capito».
Sarà stato lo spirito di Giorgio Strehler (che proprio nel Re Lear gli fece fare Edgar: la storica edizione con Tino Carraro, anno 1972), sarà stata l'inesausta baldanza del grande attore davanti alla ciclopica sfida. Fatto sta che, alla congrua ma cospicua età di ottantatré anni, da ieri e fino al 22 dicembre Gabriele Lavia scala la tragica vetta del teatro shakespeariano, al Teatro Argentina di Roma.
Allora Lavia: ora l'ha capito cos'è il Re Lear?
«Ahimè: non interamente. Re Lear è certo la tragedia della vecchiaia, dell'abbandono del potere, dell'ingratitudine dei figli. Ma anche tanto di più. È un universo intero. Come attore (e regista) non puoi far altro che tuffartici dentro, come al mare... e sperare di non affogare. Certo: se avessi dieci giorni di prove in più... Ma tanto sarebbero inutili anche quelle. Noi teatranti sogniamo sempre dieci giorni di prove in più».
Però forse avrà capito chi è il personaggio Lear.
«Certamente una vittima. Ma di se stesso. Un vecchio re che vuole abbandonare il potere, ma continuando a fare il re. Dal loro punto di vista Goneril e Regan, le figlie ingrate che lo mettono da parte, hanno ragione. Hai voluto metterti in panciolle? Beh, ora stattene tranquillo sul divano, a guardare la tv. Siete vecchio - gli dicono - Dovreste essere anche saggio. Ma il potere, diceva qualcuno, logora chi non ce l'ha. Soprattutto chi non ce l'ha più, aggiungo io».
La lezione del Re Lear strehleriano, di cinquantadue anni fa, ha influenzato questa sua messa in scena?
«Oh, il nostro è uno spettacolo completamente diverso! Si svolge in un vecchio teatro: alcuni attori trovano in un baule alcuni costumi da melodramma, li indossano, e si trasformano nei personaggi della tragedia. I miei maestri Strehler e Orazio Costa non c'entrano. Eppure c'entrano lo stesso. Perché in vita mia non c'è stata una sola volta che, prima di andare in scena, non mi sia chiesto: Giorgio e Orazio cosa ne direbbero?».
«Il teatro fa male», diceva Vittorio Gassman. Quanto fa male a 83 anni, in un ruolo monumentale come questo?
«Tanto. Stare in scena vuol dire mettersi in gioco, non solo a livello culturale o intellettuale; ma anche fisico, vocale, muscolare. Si suda tanto, si fa una fatica boia. Il teatro non ti rende felice. Mai, neppure una volta, ho finito uno spettacolo esclamando: come sono contento!. Contento perché era finito, sì. Perché poi si andava a cena. Del teatro non puoi fare a meno, questa è la verità. Ma ti regala crisi. Non gioie».
Possibile? Nemmeno un po' di legittima soddisfazione?
«Puoi essere soddisfatto quando arrivi primo a una gara, quando batti un record. Ma il teatro è un'esperienza filosofica, vestita di poesia. Ti parla dell'uomo. Ti chiede. chi sei?. E non ti dà risposte».
Il Re Lear originale di Shakespeare dura cinque atti. Il pubblico di oggi è in grado di reggerli?
«Ovviamente no. Io sono della generazione di attori per i quali il rispetto del testo è la prima cosa, ma questo Re Lear ha bisogno, come direbbe lo stesso Shakespeare, di andare dal barbiere. Qualche taglio c'è, ma senza esagerare. Come quando dal barbiere ci vado io e dico: Non troppo corti. Il fatto è che oggi il pubblico è rovinato dai cellulari. Per il cervello umano il cellulare è un discrimine storico. Come per la venuta di Cristo: AC, Avanti Cellulare, e DC, Dopo Cellulare. Per alcuni non è più nemmeno un oggetto: sono loro che sono diventati l'oggetto del loro cellulare. Così a teatro sono incapaci di seguire, di capire...».
Infine il confronto con l'età del personaggio. Come fa, alla sua, ad avere questa forma strepitosa?
«Molta ginnastica. Ma senza ossessioni. Oggi mi sento in colpa: non ho fatto assolutamente nulla. Mia moglie (Federica Di Martino, anche lei attrice, ndr), più giovane e meno pigra di me, i suoi esercizi li ha già fatti tutti. Quindi, sa che le dico? Appena finiamo questa intervista vado di corsa a fare i miei».
Nel goldoniano Un curioso accidente dell'anno scorso lei faceva addirittura le capriole in
scena. Dica la verità: le faceva apposta.«Ma certo che le facevo apposta! Così i vecchietti fra il pubblico se ne tornavano a casa tutti sbalorditi: Ammazza 'sto Lavia! A più di ottant'anni ancora je l'ammolla!».
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