La difficoltà maggiore per decifrare la crisi dell'Europa, che possiamo considerare come il tema principale del nostro tempo, è rappresentata dalla sua controversa e inestricabile complessità, una complessità tale da presentarsi sotto le spoglie del caos quale concreto orizzonte storico, come viene ben raffigurato dal notevole libro di Renato Cristin, I padroni del caos (Liberilibri, pagg. 448, euro 20). Molteplici fattori hanno concorso a questo risultato: il terrorismo islamico; l'immigrazione incontrollata; la mancanza di una salda politica comunitaria in grado di far fronte a questa gigantesca emergenza; le spinte opposte - e inconciliabili - del populismo e della burocrazia tecnocratica; la divergenza - anche questa non componibile - fra retaggi nazionalistici e istanze universalistiche; la diversa importanza degli Stati membri all'interno dell'Unione Europea; l'incapacità di quest'ultima di reggere alle nuove sfide geopolitiche, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del mondo bipolare.
A giudizio di Cristin, l'Europa è lacerata tra un radicamento alla propria essenza identitaria, con tutte le sue forme particolari, e un'incombente alterazione che assume i tratti di una sostituzione culturale (e progressivamente anche etnica). L'autore mette a nudo schemi e proclami di quel pensiero antioccidentale intriso di più svariate tendenze ireniste, multiculturaliste, terzomondiste, comunistiche, immigrazioniste, cristiano-buoniste, il cui risultato complessivo è stato quello di aver trasformato l'identità europea nella sua bolsa immagine retorica, ovvero in un'incredibile forma distruttiva di autocolpevolizzazione, rinuncia, autocensura, autoflagellazione, autonegazione. È questo, complessivamente, il mainstream filosofico-culturale contemporaneo che è, allo stesso tempo, postsessantottino e postmoderno e che oggi sostanzia il plumbeo conformismo ideologico dei nostri tempi definibile come «politicamente corretto».
Chi sono dunque gli odierni padroni del caos? Coloro, risponde Cristin, che propugnano quell'ideologia acriticamente europeista mirante a dissolvere l'Europa dei popoli e delle nazioni in un contenitore neutro dove tutto ciò che vive al suo interno è giudicato in modo equivalente. Si tratta di un eterogeneo e composito insieme, politico e istituzionale, ravvisabile nella paradossale convergenza fra alcuni retaggi ideologici del rivoluzionarismo sessantottesco e parti rilevanti del potere esercitato dai burocrati dell'Unione Europea e dunque, complessivamente, dalla occhiuta struttura eurocomunitaria costituita dai maggiori gruppi mediatici e finanziari, da una buona parte delle istituzioni educative e caritatevoli di stampo cattolico di ispirazione pauperistica, e quindi dalla Chiesa, e dai più forti gruppi politici (socialisti-democratici e cristiano-popolari).
Per Cristin è necessario affermare, per contro, la centralità dell'Europa, fondata sulla sua tradizione storico-culturale, le cui nazioni non sono entità artificiali, ma stratificazioni storiche complesse che esprimono una realtà propria che deve essere rispettata. È questa l'alternativa identitaria al riduzionismo multiculturalistico e alla concreta possibilità di una progressiva islamizzazione dell'Europa stessa. Cristin delinea un tracciato ideale dove vengono sintetizzati i punti fondamentali e irrinunciabili in grado di dar voce ad una prospettiva di rigenerazione dell'identità europea, la quale non si configura come chiusura verso l'esistente, ma come equilibrato punto di incontro tra l'eredità del passato e le istanze innovatrici del presente.
Sono accettate pertanto tutte le istanze politiche, culturali e religiose vigenti purché siano compatibili con il principio fondamentale della libertà. Questa implica la centralità irrinunciabile dei valori occidentali, i soli che permettono la convivenza tra culture e tradizioni diverse; convivenza che diventa possibile solo se ogni attore partecipante a tale convenzione possiede il requisito laico della consapevolezza critica della propria autolimitazione.
Non tutte le culture e non tutte le concezioni del mondo, quindi, possono contribuire alla dialettica pluralistica. Non certamente quelle che vivono alimentandosi soltanto della propria identità e della fede nella propria verità, pretendendo di estenderle a chiunque.
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