RomaAdesso nessuno vuole più parlare di «strappo». In primis Umberto Bossi. Pronto, per l’ennesima volta, a calmare così i bollenti spiriti: «Io e Silvio ci intendiamo sempre e non ho bisogno di metterlo con le spalle al muro». Nessuno lo mette in dubbio, e sarà pure vero che al Cavaliere «basta chiedere...». Ma è evidente che la partita referendum, senza la terribile concomitanza dell’emergenza terremoto, avrebbe avuto un esito differente. E il premier avrebbe magari chiuso un occhio. Nonostante gli indubbi vantaggi che il Pdl, in uno schema bipartitico, otterrebbe dalla vittoria dei «sì». Ma oggi, dinanzi allo spettro di una crisi economica che nessuno riesce a definire con certezza e all’impegno gravoso che lo Stato dovrà sobbarcarsi per la ricostruzione in Abruzzo, nessuno vuole rimanere col cerino in mano. Men che meno Berlusconi.
E così, archiviata per ragioni di costituzionalità l’ipotesi dell’election day - visto come una trave nell’occhio dal Carroccio, disposto a tutto pur di scongiurare il proprio indebolimento politico - Berlusconi rimanda la palla dall’altra parte della rete. Creando adesso qualche imbarazzo tra gli alleati del Nord. Ma tant’è. E il ragionamento politico del leader del Pdl suona più o meno così: abbiamo accettato il vostro no al 7 giugno, ma ora pensateci voi. Perché io non voglio in alcun modo intaccare, nell’opinione pubblica, l’immagine del governo, impegnato con tutte le sue forze nell’Aquilano. Dove oggi, non a caso, il presidente del Consiglio si recherà per la settima volta dalla tragica scossa di dodici giorni fa.
Sul tappeto, dunque, le opzioni rimangono sempre due. La prima, 21 giugno, forse più probabile, è di certo la più gradita alla Lega, che chiuderebbe a inizio estate la questione. Consapevole che, unendo i referendum ai ballottaggi, sarà difficile raggiungere il quorum. E scongiurando pure lo scenario che li vedrebbe «appesi» per un anno, sotto scacco di alleati e avversari. La seconda opzione, invece, miete consensi tra ex Fi e An, che preferirebbero rimandare. Alla luce delle aperture di alcuni democratici (D’Alema e Castagnetti in testa).
Ciò che conta, però, è che Berlusconi, nel vertice di maggioranza tenutosi ieri a Palazzo Grazioli, abbia dato mandato al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, di sondare l’opposizione. E verificare, in tempi brevi, quale sia la scelta maggiormente condivisa, visto che, in ogni caso, servirà un provvedimento ad hoc per superare il limite del 15 giugno, stabilito dalla legge. Intanto, il primo responso giunge dal leader del Pd, Dario Franceschini: «Una vergogna non aver scelto l’election day», ma ora non si può che scegliere l’accorpamento del 21 giugno.
La data, annuncia Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori pidiellini, «verrà decisa al prossimo Cdm». Quindi, c’è una settimana di tempo prima della riunione che si terrà nel capoluogo abruzzese. Già, proprio all’Aquila, location rischiosa, per certi versi, per via dei costi dell’operazione da comunicare ai cittadini. Ma è proprio sul capitolo spesa che si concentra l’interesse di tutti. Di Berlusconi e di Bossi. Non a caso, sottolinea il Senatùr alla Prealpina, «si fanno strumentalizzazioni sulla pelle dei terremotati». E «non è vero» che separare le Europee dal referendum costerà 400 milioni in più. «Maroni - aggiunge il ministro delle Riforme - sta preparando un provvedimento per cui lo spoglio delle schede sarà a costo zero». Al di là delle ipotesi, pronostica Bossi, «bisogna dividere almeno per dieci». Il premier, dal canto suo, punterà magari sul notevole risparmio già ottenuto, in ogni caso, con lo stralcio sulla data del 14 giugno.
Referendum a parte, a tenere banco è pure il totonomine Rai, in vista del Cda di mercoledì prossimo. Come anticipato ieri dal Giornale, alla guida del Tg1 andrebbe Clemente J. Mimun (ha già diretto per 4 anni, dal 2002, il notiziario dell’ammiraglia Rai), che lascerebbe la poltrona al Tg5 a Giorgio Mulè (attuale direttore di Studio Aperto) o Maurizio Belpietro, ora alla guida di Panorama. Nel secondo caso, a dirigere il settimanale Mondadori potrebbe essere Augusto Minzolini, editorialista della Stampa.
Sembra fatta, inoltre, per Mario Orfeo (direttore del Mattino) al Tg2: andrebbe al posto di Mauro Mazza, che traslocherebbe a Raiuno. A Raidue, invece, al posto di Antonio Marano (per lui la carica di vicedirettore generale, insieme a Lorenza Lei e Giancarlo Leone) la giornalista del Tg1 Susanna Petruni, affiancata come vice da Ida Colucci (Tg2). Dovrebbe rimanere al suo posto, a capo di Raitre, Paolo Ruffini, mentre per il Tg3 la spunterebbe Antonio Caprarica (in lizza anche Bianca Berlinguer). Per la direzione del Gr si parla di Antonio Preziosi, mentre Bruno Socillo dovrebbe assumere la guida dei programmi radiofonici.
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