Roma - Ah, ce n’eravamo dimenticati o quasi: c’è ancora il Pd, il poliedrico partito che fiuta l’aria e punta occhi su ognuno dei cantoni, specie se portano posti a sedere. Un occhio su Confindustria, un altro a sinistra, un terzo al centro moderato. Un quarto guarda la Bce, il quinto occhieggia ai referendari. Un partito «opzionale», cioé capace di sfornare opzioni a richiesta. Un pret-à-porter. Di conseguenza, reclama elezioni anticipate. Anzi no: governo tecnico-istituzionale «d’emergenza» per «ricostruire e ripartire» risanando l’economia. No, neppure: «Che faccia una nuova legge elettorale». Essendo il partito dei lavoratori, «lavoriamo a entrambi gli scenari», conclude il segretario Pier Luigi Bersani dopo la Direzione nazionale riunita ieri.
Entrambi quali? E un governo con chi? Un’alleanza elettorale verso dove? Nessuna delle opzioni trova conferma, «lavoriamo a una convergenza tra forze progressiste e moderate», sospira il leader pronto a tutto. Vendola-Di Pietro-Casini e - chissà - Fini. Però il problema che emerge non è poi neppure quello denunciato dal moderatissimo Beppe Fioroni («Attenzione: se puntiamo sul Nuovo Ulivo il Terzo Polo va a destra e ci scappa»). Perché sul confusissimo dibattito precipita il referendum, un’opzione di successo sfuggita dalle mani degli strateghi del Pd. Strano, come mai? Il consueto trucco di appoggiare il cappello a cose fatte, avendo soppesato un milione e 200mila firme, stavolta non funziona. Bersani ha sostenuto in tv persino d’averlo firmato (dopo aver imposto l’inconciliabilità con le proposte pidì). Ma Arturo Parisi non ci sta a passare per fesso. Lui ricorda. La rivendicazione postuma è stata «scomposta dei meriti: qualcuno pensava che il referendum fosse la Dolce euchessina...». Insiste, sotto gli sguardi terrei del vertice smascherato: «Come si fa, dico io, a non riconoscere la distanza spaventosa che esiste tra il deliberato proposto dal vertice del partito e purtroppo accettato all’unanimità dalla direzione, e il fiume di firme che ci ha travolto? In un partito e in un sistema quale quello che voi proponete per il governo del Paese, il segretario dovrebbe presentarsi dimissionario per difendersi dall’accusa d’aver inferto un grave danno al partito proponendo una linea che si è dimostrata radicalmente sbagliata...».
La richiesta di dimissioni, sia pure posta in modo paradossale, è sale sulla carne viva. La raccolta di firme, continua Parisi, sollecita una «scossa di democrazia che scuota dall’immobilismo, figlio dell’unanimismo, e nipote del continuismo che ha impedito al Pd di nascere come un partito veramente nuovo».«-Ismi» a parte, ciò che rimane nella testa degli italiani è purtroppo «l’idea che anche il Pd abbia paura della democrazia, delle primarie che non siano la conferma di decisioni già prese, delle riunioni che si concludono con voti che non siano bulgari, delle riunioni degli organi ufficiali che non si limitano ad applaudire decisioni assunte in organi inesistenti».
Cose forse risapute, ma sentirsele spiattellare lì, davanti ai dirigenti imbalsamati, deve aver suscitato la stessa impressione di un mujaheddin che tirasse la barba dell’ayatollah, scoprendola posticcia. Bulgari, ipocriti, sprovveduti. E come pensate potessero reagire gli ayatollah? Banale, con il buonsenso della casalinga di Piacenza: «Il Pd non è un optional, io non sono il segretario di un optional - sbotta Bersani, difeso da Marini e dagli altri - e mi stupisce che dirigenti del Pd anziché valorizzare il nostro contributo al referendum lo azzoppino... Ci siamo arrivati per vie tortuose? Però ci siamo arrivati».
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