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Il regista esordiente: racconto la mafia con una storia senza luoghi comuni

L’Italia è una solida quercia e il cinema è il suo ramo fiorito di speranza, come dimostrano, a fine Festival, certi piccoli film tutta polpa, che compiono un miracolo della coscienza: l’irreversibile condanna etica e civile di ogni fenomeno mafioso (Gomorra docet e non a caso il presidente della Repubblica consegnerà al regista, Matteo Garrone, il Premio De Sica). Così, dopo i pugliesi Il passato è una terra straniera (Vicari) e Galantuomini (Winspeare), entrambi contro il crimine diffuso nel Tacco, ieri è toccato a La siciliana ribelle del palermitano esordiente Marco Amenta, classe 1970, far vibrare il ricordo d’una storia vera e, per ciò stesso, ancora più toccante, nel film che l’Istituto Luce distribuirà a febbraio 2009. Nella sezione «Alice», dedicata agli juniores, figurava bene questa coproduzione italo-francese (costo: 3 milioni, con il contributo del ministero per i Beni Culturali, Rai Cinema e Regione Siciliana), volta a diffondere tra i ragazzi, nostra garanzia democratica, l’esempio di Rita Atria (qui Veronica D’Agostino, già nel Borsellino tivù, dunque un po’ «abbonata» al genere antimafia), eroina morta di sua mano nel 1992 a Roma, dove viveva sotto protezione dopo aver denunciato i Corleonesi di Partanna. Gli stessi mafiosi che le ammazzarono padre e fratello e che lei, ragazzina di diciassette anni, trovò il coraggio d’indicare alla magistratura e, segnatamente, a quel Paolo Borsellino (qui Gérard Jugnot, intenso come vice-padre) cui si legò in virtù di fiducia. «La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io, senza di te, sono morta», scrisse Rita nel suo diario, prima di suicidarsi, una settimana dopo la tragica fine del magistrato suo confidente. Rinnegata e minacciata dal paese e dalla madre come «fimmina lingua longa e amica degli sbirri», la piccola Antigone rivive adesso in un film la cui genesi è altamente simbolica. A vent’anni Amenta emigrò in Francia, per affermarsi come fotoreporter e adesso, dopo molti, premiati documentari; dopo aver messo in piedi, con la sorella, una casa di produzione a vocazione culturale, tornato nella sua Sicilia può dire: «L’occupazione è un modo per combattere la mafia: il lavoro è fondamentale ed è per questo che ringrazio chi mi ha finanziato, credendo in me». Mirando a un prodotto non di genere, l’autore ha voluto raccontare la mafia dal punto di vista d'una ragazzina. «L’Italia è piena di gente onesta: i mafiosi sono pochi, né occorre polemizzare, perché mandiamo in giro l’immagine d’un Paese corrotto. Questa è una storia universale, che tocca qualunque tipo di pubblico», spiega l’autore.


Intanto, Israele si è aggiudicata i diritti di distribuzione e Antonello Antinoro, assessore ai Beni culturali della Regione Siciliana, annuncia con orgoglio: «Con i fondi dell’Unione Europea destinati alla Sicilia stiamo rilanciando la cultura e l’arte, come testimoniano i film di Tornatore, Wenders, Turturro, girati da noi. A conferma della stabilità dei nostri progetti, nascerà a Termini Imerese un centro di produzione cinematografica, che darà lavoro a molti. Il progetto è già messo a bilancio per il 2009».

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