Nostro inviato a Bologna
Dietro ai suoi occhialoni alla Kissinger, fasciato da un completo grigio bancario (ma rallegrato da un cravattone turchese), Martin Scorsese ha tirato un sospiro prima di dare la recensione di No direction home: Bob Dylan: «Quando lho finito e lho rivisto su di un grande schermo, ho capito che questo film parla dei suoi occhi. Tu li inquadri e Bob parla delle sue cose, ma ti accorgi che i suoi occhi se ne vanno sempre altrove». Però anche lui, il regista che è nominato dal 1981 (Toro scatenato) ma che non si è mai portato a casa nemmeno un Oscar, è abituato a far così: è sempre altrove. Gira, assorbe, cambia. E poi con Dylan è a casa: nel 78 ha diretto Lultimo valzer che fotografava il concerto finale della Band con Bob, e la loro vita fuori dal palco. Era il ritratto di una generazione al suo massimo. Ora, per finire questo documentario, che ne è un po il testamento ideale (disponibile solo su dvd) ha impiegato cinque anni, durante i quali ha impacchettato anche Gangs of New York e The Aviator. E così, mentre è in piedi, piccolino, sul palchetto del cinema Medica, spiega che grazie a Bob Dylan «volevo dare un senso al Midwest da dove lui viene e alla New York dove è arrivato negli anni Sessanta. Volevo spiegare lAmerica ai giovani».
Daltronde la sua America, che è la stessa del pressoché coetaneo Dylan, lui la conosce fin troppo bene, lha vissuta tutta e mica è colpa sua se ha cominciato a farlo più di quarantanni fa, quando Like a rolling stone ha obbligato la rabbia silenziosa della gente folk a urlare, a uscire dai festival di pace e a ritrovarsi infine a Woodstock. Perciò, dice, «ho voluto capire quali voci Bob Dylan abbia ascoltato nella sua carriera, a che cosa ha dato retta per arrivare fin dovè ora». E facendolo, anche Scorsese ha tirato un bilancio della sua carriera. «Mi sto godendo la mia età» aveva detto la settimana scorsa a Marrakesch.
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