La regola è bipartisan: una coalizione non regge quando i suoi capi giocano a boicottarsi tra loro

L’uomo di troppo non c’è più. Milano ancora una volta è un buono specchio per capire quali sono i punti chiave della politica italiana. Questa è la storia di due uomini di sinistra, che si sfidano alle primarie, faticano a riconoscersi come simili, e quando vincono le elezioni contro la Moratti si ritrovano a «governare» insieme a Milano. Si chiamano Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Non andavano d’accordo prima, non si sopportano neppure adesso. Il secondo, Boeri, si è fatto da parte, stizzito. Era il più debole.
Il finale in fondo era quasi già scritto. Quando Pisapia è diventato sindaco molti uomini della sua giunta già sussurravano una cosa. Qui il problema per tutti ha un nome e un cognome: Stefano Boeri. Non è quindi una sorpresa. Non è neppure importante soffermarsi sull’ultimo motivo si scontro, l’Expo. Boeri voleva tanti poteri, Pisapia e i suoi uomini non gradivano le pretese di uno che in fin dei conti era stato sconfitto e stava in giunta solo per accontentare il partito di maggioranza della sinistra, cioè il Pd.
Il caso Milano mostra come alla fine nelle coalizione non c’è spazio per troppi leader di media caratura. Non si può governare con coalizioni dove non c’è chiarezza su chi sia il comandante della nave. Questo non significa che il capo è per sempre e neppure che non ci possa essere un gioco di squadra, ma almeno per quel tragitto il pilota non deve subire veti o sabotaggi più o meno nascosti. È un discorso che vale anche per i singoli partiti. La storia del Pd, da questo punto di vista, è l’opposto per esempio del Pci. Il gioco a spolpare il segretario ha finito per togliere carisma a tutti, con l’ombra dei duellanti D’Alema e Veltroni a condizionare scelte e uomini, con l’arrembaggio di Renzi e i mal di pancia post democristiani della Bindi o di Franceschini. Qualcuno può obiettare che nella Dc scalciavano parecchi cavalli di razza. Ma lì il collante forte era il megapartito, il balenone con le sue regole ben definite e la sicurezza di governare per grazia divina e volontà del grande padre di Washington. Qui invece i partiti sono pesci piccoli e instabili. Il problema diventa poi ancora più evidente quando si parla di coalizioni. Di Pietro e Vendola potranno mettere a tacere qualsiasi futuro premier della sinistra. E lo faranno cercando di dimostrare che chi governa non sempre comanda. Stesso discorso per il «grande centro» dove prima o poi Casini dovrà fare i conti con Fini e Rutelli, relegandoli a un ruolo di vassallaggio. Tre sono troppi per un centro grande solo di nome. E a destra? Qui non è ancora davvero iniziato il post Berlusconi e la guerra di successione è tra personaggi, al momento, più o meno dello stesso peso. Il Cavaliere indica Alfano, ma i vari capi corrente non accetteranno questa leadership senza neppure giocarsi la partita. È un Pdl più debole? È un Pdl in formazione e quindi ancora indefinito.
Il «Papa straniero» invocato a lungo dalla sinistra nasce proprio da questa carenza di auctoritas. I capi hanno un problema di legittimità. Non sono riconosciuti neppure come primus inter pares. Ci ha provato Prodi, ma con una coalizione con un’anima a pezzi, dove si stava insieme con la scusa dell’antiberlusconismo e un programma carico di «se» e di «ma».
Le primarie, si dice, servono proprio a risolvere questo problema. La coalizione sceglie il suo campione. Il problema, però, non è solo la forza del «primo», serve anche la consapevolezza dei «secondi». Qui basta avere quattro amici per sentirsi un pezzo fondamentale della scacchiera politica. E in più non c’è una grande cultura dei «numeri due». Fare il secondo è un’arte.

Boeri, per esempio, non è caratterialmente capace di percepirsi come spalla. Si sente un «mattatore» costretto a lasciare campo a un sindaco che appartiene a un «salotto» culturale e politico diverso dal suo. E ognuno nel suo salotto è re.

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