Cultura e Spettacoli

Regolamento di conti a Harlem tra irlandesi e afroamericani

Regolamento di conti a Harlem tra irlandesi e afroamericani

«Quando inizierà il rumore, metà di quei negri uscirà dal retro». Dan Foley inserì i pallettoni nel fucile con il pollice. Quando fu pieno controllò la pistola. «A quel punto, voglio che tu li annaffi di piombo per bene. D’accordo?».
Mike, il fratellino di Dan, sbatté il caricatore nella mitragliatrice Thompson calibro 45. «D’accordo». Mike aveva altre armi: calibro 45 automatiche sotto le ascelle e un revolver calibro 32 alla caviglia. «In quanti sono lì dentro?».
Dan scrollò le spalle, svitò il tappo di una fiaschetta di whiskey, la sollevò e bevve, poi si pulì la bocca con una manica. «Stanno giocando a carte e fumando erba. Non sapranno nemmeno cosa li ha colpiti. Chiaro, stiamo attenti, ci mancherebbe. Ma direi una dozzina. Più o meno».
Due contro dodici. Mike strinse la presa sul mitra. Nessun problema. Erano seduti nella Buick a un isolato di distanza. Dan guardò l’orologio, si accese una sigaretta. «Cinque minuti». A Mike non piaceva aspettare. Ma aspettava. Dan era il capo, e Mike aspettava la parola di Dan. Era stato così per cinque anni, da quando Mike aveva compiuto i diciotto e Dan lo aveva accompagnato a fare il suo primo lavoro. Mike si cagava addosso dalla paura, ma quando avevano iniziato a sparare si era stupito anche lui di quanto solido fosse rimasto. Aveva scelto gli obiettivi, premuto il grilletto, non si era tirato indietro né aveva esitato quando le pallottole gli erano schizzate vicino alle orecchie. Aveva ucciso quattro uomini nella sua prima notte, poi Dan gli aveva pagato giri di bourbon finché non aveva vomitato ed era svenuto.
Dan e Mike si guadagnavano da vivere risolvendo problemi per conto dei mangiapasta. A volte la mafia aveva bisogno di dare una scrollata alla concorrenza, ma non voleva prendersene la responsabilità. Mike non faceva nemmeno finta di capire le politiche della malavita. Sapeva solo che si facevano bei soldi spazzando via certa gente. Ora si stava preparando a punire questa gang di Harlem per avere sconfinato nel mercato di eroina della mafia. A Mike non importava neanche un po’ quale banda di bastardi vendesse veleno. Tutto quello che sapeva era che il contrasto creava inimicizie, e che la situazione portava denaro nelle tasche sue e di suo fratello. Era così che andava, gli aveva spiegato Dan. Interrogarsi sulla moralità del tutto non era il ruolo di due ragazzi irlandesi. Fornivano un servizio per il quale venivano pagati, tutto lì.
Dan mise in moto la Buick e la parcheggiò nel vicolo dietro al club. Tirò fuori dalla tasca della giacca una bomba a mano, la mostrò a Mike e strizzò l’occhio. «Quando senti questa piccolina scoppiare, preparati». Mike guardò storto la bomba. «Dove diavolo l’hai trovata?» «Jersey». Dan uscì dall’auto e fece un gesto di approvazione con i pollici in direzione di Mike. Mike guardò il fratello maggiore sparire dietro l’angolo, la canna del mitra che gli spuntava dal fondo dell’impermeabile. Anche Mike uscì dall’auto, indugiò vicino ai bidoni della spazzatura, tenendo d’occhio la porta sul retro. A fianco della porta c’erano due finestre sporche. Non riusciva a guardare dentro, vedeva solo una luce fioca. Calma. In strada, un clacson suonò. Un piccione svolazzò verso la scala antincendio. Poi la bomba. Mike sentì l’esplosione nei piedi. Urla da dentro. Colpi di pistola di piccolo calibro che facevano sembrare il mitra rabbioso di Dan ancora più impressionante. Nonostante Mike se lo aspettasse, sobbalzò quando la porta sul retro fu spalancata all’improvviso. Erano in sei con la giacca nera, le cravatte allentate, gli occhi iniettati di sangue. Uno si teneva una mano sulla spalla sanguinante. Solo tre avevano pistole in pugno. Il mitra si impennò tra le mani di Mike, eruttando fuoco e sputando piombo. All’inizio mirò troppo alto, ma riuscì ad abbassare il tiro. Sventagliò il mitra da sinistra a destra, colpendo i sei uomini al bersaglio grosso. Si piegarono in avanti, tenendosi il petto e le budella. Uno riuscì a sparare un colpo, forando il bidone a fianco di Mike con un tunk metallico. Svuotò il caricatore, frantumando le finestre con le ultime pallottole. Lasciò cadere il mitra ed estrasse le pistole automatiche, scavalcò i teppisti morti ed entrò nell’edificio. C’erano altri due cadaveri appena dietro la porta. Il mitra li aveva masticati per bene. Girò a sinistra, trovò una cucina. Altri morti. Aveva ucciso un uomo e una donna quando aveva sparato attraverso le finestre. Si avvicinò ai corpi, puntò la pistola alla testa della donna. Se uno dei due si fosse mosso, avrebbe dovuto finirlo. La donna giaceva a faccia in giù. Qualcosa spuntava da sotto di lei. Una gamba. Una piccola gamba bruna, magra, con un calzino increspato rosa sul piede. Mike si sentì gelare. La stanza oscillò. Si concentrò sul calzino rosa. Per qualche motivo, Mike non riusciva a riprendere fiato. Allungò una mano tremante verso la spalla della donna, voleva girarla, vedere cosa aveva fatto. Doveva vedere, doveva sapere. Gli vennero in mente immagini del volto del bambino distrutto dalle pallottole e si bloccò.

Avrebbe sopportato la vista? Qualcuno lo afferrò da dietro, e Mike sobbalzò.

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