La «religione» del lavoro in quelle anime di ghisa

Dongo e la ferriera, un rapporto osmotico chiamato a misurarsi con l’identità industriale lombarda e quella delle famiglie legate alla sua storia. Il contesto in cui nasce Radici di ferro, il libro che ho curato con Paolo Mazzo, edito da Silvana Editoriale, è il centenario della fondazione delle Acciaierie e Ferriere Lombarde, avvenuta nel gennaio del 1906, che diviene l'occasione per indagare un secolo di vicende storiche, politiche e culturali, considerate alla luce della presenza della fabbrica che ha modellato la comunità e l'ambiente circostanti. Capire la storia di Dongo, paese sulla costa occidentale dell’alto Lario, in provincia di Como, a due passi dalla Svizzera, significa acquisire gli strumenti di lettura necessari per comprendere altre realtà industriali del territorio nazionale. Quante e quali corrispondenze potremmo ritrovare nei modelli sociali, economici e industriali prodotti a Dongo con quelli di Sesto San Giovanni, Taranto, Rosignano, Monfalcone, Dalmine, Torino; un elenco parziale di un numero considerevole di realtà di cui oggi con rammarico si sono perse le voci dei protagonisti.
E qui sta il primo elemento caratterizzante del libro: aver costruito questa ricerca attraverso le voci dei suoi protagonisti, più o meno invisibili. È la voce di un operaio che, annerito dalla fuliggine e immerso nel frastuono assordante delle macchine di cernita, trovò il coraggio di dichiarare il proprio amore alla futura moglie. Per poi, una decina di anni dopo, durante l'occupazione della fabbrica cui la moglie non volle aderire, aspettarla all'ingresso dello stabilimento per lanciarle in testa i pomodori che proprio lei la sera precedente aveva acquistato dal fruttivendolo. Sono le voci dei sindaci dei paesini attorno a Dongo, tutti impiegati in ferriera, che trasformavano la pausa pranzo in una sorta di seduta parlamentare litigando sulla polemica politica del giorno. È anche la voce della famiglia Falck; di quando sul finire degli anni Ottanta decise di chiudere con la propria storia lasciando lo stabilimento di Dongo. Durante una manifestazione, un sindacalista riconobbe Giorgio Falck seduto al tavolino di un bar. Se lo ricordava ragazzo, quando la famiglia lo spediva d'estate in fonderia a raddrizzarsi la schiena. Ma in quel bar lo vedeva più grigio del suo paltò, consapevole di non contare più nulla, perché lui quello stabilimento non voleva chiuderlo. E al sindacalista quella visione sembrava improponibile: lui, con la paura che la ferriera chiudesse i battenti, seduto a consolare un miliardario. Sono centinaia le vicende umane e industriali avvenute dentro la ferriera, come se in conclusione fossero state le sue mura le testimoni più affidabili degli avvenimenti che le sono accaduti dentro e attorno.
Dalla riscoperta di queste memorie orali si è sviluppato Radici di Ferro, una ricerca di 340 pagine sature di testi e fotografie che se da una parte suggeriscono immediatamente l'ambizione del progetto, dall'altra ci invitano a comprendere che è un libro dedicato a tutti, non solo a specialisti o addetti ai lavori. Un secondo elemento originale della pubblicazione sta nella pluralità degli sguardi: i percorsi narrativi si rintracciano tanto nei tre racconti dalla ferriera contenuti nel libro quanto nel documentario El risciün allegato nell'ultima pagina, entrambi curati da chi scrive, dove trova spazio tutto questo groviglio di testimonianze. E si riconoscono nelle fotografie del presente, realizzate da Paolo Mazzo, impietoso ma lucido ritratto del tessuto sociale. Mentre l'approfondita ricerca psico-sociale dell'Università di Padova si accosta alla necessaria ricerca storico-archivista scritta da Valter Merazzi. Sono sguardi distinti che hanno saputo dialogare fra loro, integrandosi e stimolandosi a tal punto da poter divenire un modello di ricerca, attorno ad un soggetto su cui ancora troppo poco si è voluto riflettere, come se avessimo voluto cancellare un pezzo importante della nostra storia recente. La storia di una nazione come l'Italia che ha dimenticato il valore e la dignità del lavoro.
Il legame tra la fabbrica e la sua città è qualcosa che non si può e non si deve sciogliere. Casomai si può trasformare. Un nodo stretto con forza che neanche lo scorrere dei decenni e l'alternarsi dei governi riescono ad allentare. Neppure se un tempo a Dongo erano in duemila a forgiare la ghisa e oggi nella sterminata officina si incontrano sì e no dieci operai impegnati a sperimentare nuovi raccordi. Un'officina che oramai si può definire, con qualche rimpianto, un pregiato pezzo di archeologia industriale: nei capannoni deserti, tra i macchinari che appaiono scheletri preistorici nell'era del microchip, sotto queste luci in chiaroscuro la vita ha scavato solchi indelebili.

Nell'introduzione a Le città invisibili, Italo Calvino scrisse che tutte le città, anche le più infelici, hanno un angolo felice e a quel luogo bisogna appigliarsi con tutte le forze. Parole che devono valere anche per Dongo. L'errore più grave è quello, invece, di cancellare la storia e misconoscere la memoria del luogo.

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