C'è nichilismo nei dipinti di vecchi e di familiari di Andrea Martinelli in mostra a Urbino, che pur fanno pensare al riconoscimento di una storia privata come culto e religione. Nel redde rationem del confronto con la morte, non so se egli sia credente o no; ma il nichilismo di cui parlo contrasta con la speranza che ci sia un mondo in cui noi risorgeremo con i nostri corpi. Lo dico perché il primo grande ammiratore dell'impresa artistica di Martinelli è stato, circa trenta anni fa, Giovanni Testori, il quale, con una squadra di alcuni giovani (che ha inteso contrapporre al gruppo più conosciuto della Transavanguardia, sostenuto da Achille Bonito Oliva) ha indicato coloro che erano meritevoli di attenzione, tra i quali Giovanni Frangi, Velasco Vitali, e anche un pratese in conflitto stabile con Martinelli: Luca Crocicchi. Altri dimenticati, come Fausto Faini; tutti comunque carichi di una potenza espressiva che Testori ha consacrato.
In questo percorso europeo, con l'indicazione di valori originali in dialogo con artisti come Hermann Albert o Rainer Fetting, appare tardi agli occhi di Testori, perché più giovane, Andrea Martinelli. Testori è malato, e la malattia gli impedisce di scrivere il saggio che Martinelli avrebbe meritato. C'erano un apprezzamento e una dichiarazione di interesse noti. E io a tal punto ne sentii la forza che mi sono incaricato di essere il primo trascrittore di quelle comunicazioni orali, interpretando quasi medianicamente il pensiero di Testori e scrivendo forse il primo saggio impegnativo su Martinelli.
Presi il posto di Testori, ereditai Martinelli circa venticinque anni fa, da un maestro che era pieno di passione e di fede, potremmo dire un nichilista cristiano, «certo che nel nulla c'è la pienezza di Dio». Nella sua interpretazione sarebbe stato un cristiano sofferente anche Leopardi, come Martinelli declina in una dimensione apocalittica la sua disperazione e il suo nichilismo. Il mondo di Martinelli non ha gli stessi fondamenti; io credo che lui sia un nichilista totale. Quello che rappresenta è un mondo che si spinge fino alla morte, in cui la morte è sempre presente, ed è presente soprattutto quanto più è vicina. È chiaro che pensare alla morte per un bambino è innaturale, mentre pensare alla morte per un vecchio è la cosa più logica e più naturale. Quella immutatio che la morte comporta nel farci diventare tutti uguali vale soprattutto per i vecchi. Mentre un giovane è un giovane: uno è alto, uno è bello, uno è curioso, i vecchi sono tutti uguali. Il vecchio ha le rughe, ha qualcosa che ti fa sentire che la morte è davanti a lui.
Questa passione straordinaria di Martinelli per i vecchi, e non i vecchi per loro condizione fisica, ma i vecchi legati a lui, come suo nonno, rappresenta un culto per gli avi come figure religiose. Non è come credere in un Dio lontano, ma è sentire la divinità dell'uomo, in questi vecchi che Martinelli avvicina e che fa sentire testimoni di un mondo interiore straordinario. Martinelli sente una verità profonda più radicata, una religiosità della vecchiaia, e nelle sue opere c'è una componente religiosa, oltre il fondamentale nichilismo che egli testimonia. E, d'altra parte, la potenza delle sue opere, realizzate con una pittura così ardimentosa, così devota, potrebbe fare pensare a qualche affinità con la fotografia.
La fotografia è una minaccia per molti artisti figurativi nel senso che può ispirarli ma può anche scavalcarli, facendo meglio e prima di quanto fanno loro. Da questo punto di vista voglio ricordare almeno due posizioni che condivide il nostro Martinelli con personalità molto importanti dell'arte italiana. Uno è Leonardo Cremonini che ebbe con lui, in occasione di una mostra, un dialogo. L'altro è Gillo Dorfles. Due personalità diverse, una più sanguinolenta, più calda e passionale, e una apparentemente più fredda, ma calda di affetti e sentimenti, come quelli che Martinelli mostra verso i suoi parenti. Disse una volta Cremonini, in occasione di un convegno a Villa Medici, una cosa assolutamente straordinaria: «La fotografia rappresenta la morte, la pittura rappresenta la vita». La fotografia è molto precisa, crea un effetto formidabile, e molti fotografi sono veri artisti. Peccato però che la fotografia nel riprodurre il vero sia così efficace e così definitiva che quel vero diventa un atto di accusa verso di noi. Una fotografia mia di venti anni fa non sono più io. Una fotografia di qualunque persona cinque anni fa non mostra più lei. Una fotografia di ognuno di noi, in uno spazio, mostra insegne, abiti, cravatte che indicano ciò che rispetto a quella fotografia non c'è più. Appena colto, è morto. La fotografia ferma quel momento e rappresenta la morte anche di un'immagine meravigliosa.
La pittura invece rappresenta la vita, come dice Cremonini. Prendete l'Olympia di Manet, la Maja desnuda e la Maja vestida di Goya, la Venere di Giorgione: sono opere lontane, eppure noi le guardiamo palpitanti, come se fossero vive. Addirittura Velázquez, il più grande pittore dei «nostri» tempi, respira, alita, e vedi che le sue figure si muovono accanto a noi, sono vive, non perché abbiano una vitalità legata al loro tempo rispetto al nostro, ma perché la pittura le agita, le anima e le fa vivere, ora.
Se noi dovessimo immaginare la fotografia di un volto dipinto da Martinelli, vedremmo qualcosa di congelato in una morte sostanziale, benché il soggetto sia vivo. Invece nei suoi dipinti qualcosa, pur nella fedeltà riproduttiva, agita il colore per farci sentire che quella figura ha carne, ha movimento delle labbra, vibra, vive. Avvertii, però, la contraddizione quando il più vecchio critico d'arte italiano, Gillo Dorfles, morto il 2 marzo scorso a 107 anni, incontrò Martinelli. Fui io a presentarlo, e insieme a Martinelli e alle persone che erano con noi, immaginammo un ritratto di Dorfles con quella bella faccia da tartaruga, un soggetto perfetto, e glielo proposi senza fargli vedere le immagini delle opere di Martinelli. A quel punto Dorfles rovescia l'ipoteca di Cremonini e osserva l'inutilità di un dipinto realistico così faticosamente condotto, se la stessa cosa può farla anche la fotografia. Una posizione opposta a quella di Cremonini, e in qualche modo subalterna o fiduciaria. Da quando esiste la fotografia non ha più senso dipingere ritratti minuziosamente realistici.
Dopo la mostra di Balthus alla Biennale di Venezia del 1980, nella Scuola di San Giovanni Evangelista, si può dire che i pittori tornarono a dipingere senza essere guardati come mostri. La merda era stata una cosa bella nel clima dell'arte degli anni '60, ma negli anni '80 si rompe il ghiaccio, anche se non in modo ancora decisivo. Quindi, se Dio è morto, se l'arte è morta, tutto è permesso, anche dipingere.
Con un'altra bellissima metafora Cremonini diceva (parlando di artisti come Andy Warhol o della pop art) che ci sono due tipi di arte: l'arte applicata, di chi usa la moda, la fotografia e la comunicazione per avere successo; e gli artisti veri, che esprimono arte implicata, e che ti mettono davanti a un'immagine che riguarda la vita, il senso ultimo delle cose, il dramma, il sangue.
Questa dimensione profonda e vera dell'arte è un modo per definire l'implicazione emotiva razionale, sentimentale di Martinelli davanti ai suoi soggetti, soprattutto quelli più cari, radicati nella sua storia, nella sua famiglia, nei suoi vecchi.
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