Ferruccio Gattuso
da Montichiari (Brescia)
Santone, poeta, camaleonte, arruffapopolo. La somma degli Zero dà sempre Zero ma è questa la cifra perfetta che contiene tutte le altre possibili per il popolo fedele e indefesso che si raccoglie al Palasport di Montichiari. Palazzetto stipato da seimila persone: se un ago da cucito fosse fan del Renatone nostro questa sera non troverebbe spazio per assistere alla prima tappa dello «Zero Movimento Tour 2006», viaggio musicale che porterà il cantautore e showman romano a esibirisi su e giù per lo Stivale, fino ai primi di aprile (ultima data, Acireale). Primo di una lunga serie di «tutto esaurito» che, al momento in cui scriviamo, ha già segnato 15 delle 25 date previste: segno indiscutibile che l'ormai dimenticata tentazione del ritiro dalle scene, ventilata nei primi anni, è ormai finita nel cassetto. Chiusa a tripla mandata.
È dunque qui, a due passi da Brescia, che Renato Zero celebra il suo rito di musica e immagine, di canzoni e apparizioni teatrali, sempre sull'ardito confine tra l'ironico e il kitsch più disarmante. Anche se lui prova a buttarla sul politico, versante qualunquismo a buon mercato: «Perché ci lasciamo calpestare?» esordisce. «La forza del popolo è schiacciata da quattro deficienti analfabeti che ci governano. Questi signori - sentenzia - non si fanno vedere per strada, se ne stanno sempre chiusi nel Transatlantico, che si chiama Parlamento, dove giocano a carte... con la nostra esistenza». Poi chiude il sermoncino con il più classico dei luoghi comuni: «I politici pensano alla poltrona e non vedono il malessere che cè e che io noto andando in giro». La platea applaude il suo idolo. Ma chi si aspetta solo signore sulla quarantina affette da nostalgie adolescenziali non ha che da aguzzare la vista quando le luci della coreografia infiammano il pubblico: non sono pochi i ventenni, parecchi anche i maschietti, rigorosamente muniti di fasce e sciarpe dell'Amato e Invocato. E cantano a memoria ogni lirica di un repertorio che Renato Zero ha ben studiato sul filo rosso che lega passato a presente: si va da Il Jolly, brano tratto dallo storico album Artide e Antartide del 1981, che introduce il concerto, a Guai, vestita di uno scattante arrangiamento funky-rock ma sempre ancorata alla ben nota melodia datata 1980; dalla recente (e prediletta dal pubblico) Mentre aspetto che ritorni, dell'ultimo multiplatinato album Il Dono, ai passaggi imprescindibili come Fortuna, Un uomo da bruciare e, nel finale, le storiche Resisti e Più su (per metà cantata dall'intero palazzetto). Quanto a lui, guida suprema del Carrozzone che va avanti da sé, si muove sulla scena offrendo tutto ciò che la sua gente si aspetta: la gestualità plateale, le impennate melodrammatiche nella voce e, come no, le numerose «mise» senza le quali Zero non sarebbe Zero. Di bianco vestito al primo apparire, in un completo sobrio appena segnato da qualche paillette, attorniato da una scenografia suggestiva, con un anfiteatro di pannelli luminosi che si alza e abbassa sulla band (tra cui spicca, al pianoforte, l'americano Mike Harrys) e un disco rotante di 14 metri di diametro su cui Zero cammina e scorre in scena, talvolta sdraiato su un divano, altre volte protagonista di una coreografia a tema. Poi, all'opposto, in un completo gemello ma nero, e successivamente - in un crescendo senza sensi di colpa - con tuta mimetica da osservatore di anatre (in realtà voyeur di esseri umani, come canta in Voyeur), avvolto in catene sadomaso in Fortuna, poi in un pentagramma in D'aria e di musica, addirittura vestito d'armatura medioevale in Uomo no.
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