La nuova impennata nel numero delle perdite Usa in Irak preoccupa i responsabili delle operazioni belliche più di quanto gli stessi numeri possono dire. Non soltanto vengono smentite una volta di più le periodiche dichiarazioni tranquillizzanti di esponenti politici e militari circa l«indebolimento progressivo del nemico» (parole che sono unabitudine e un dovere in ogni guerra), ma loffensiva degli insorti avviene proprio in unarea in questo momento cruciale per i piani di Washington. Le imboscate ai marines, infatti, si sono verificate nella zona desertica a nord-ovest di Bagdad e vicino alla frontiera siriana, non lontano dal posto prescelto per stabilire una base permanente in luogo strategicamente favorevole, lontano dai centri urbani dove di solito risiede il maggior pericolo di attentati, e dunque di dissanguamento delle unità Usa.
Sono cominciati da pochi giorni i lavori per la costruzione di una base che dovrà ospitare circa duemila uomini, presso la cittadina di Rawah, molto vicina alla frontiera e ad alcuni dei «corridoi» più usati dagli «infiltrati», cioè dai volontari stranieri che giungono a rinforzare i ranghi della guerriglia e del terrorismo, e che Washington ha spesso denunciato come i principali autori degli attentanti più brutali e sanguinari. In una seconda fase in basi di quel genere si dovrebbero concentrare le truppe Usa destinate a rimanere in Irak dopo il preannunciato ritiro di 80mila o 100mila soldati, da portare a termine entro un anno. Loperazione è giudicata politicamente necessaria, anche perché sembra lunica praticabile per consentire un proseguimento a lungo termine dello stazionamento strategico americano in Irak, «disimpegnando» le truppe dalla conduzione quotidiana degli scontri con la guerriglia.
Un ritiro visibile, cioè dalle popolose aree urbane, è fra laltro posto come condizione dalla leadership sunnita per partecipare ai lavori del Parlamento provvisorio e in genere allattività di governo. Anche esperti strategici contrari in linea di principio a un rimpatrio prima che la missione sia del tutto compiuta riconoscono oggi che è diventato necessario almeno discuterne. Senza contare che il progetto potrà alleggerire le pressioni dellopinione pubblica americana su Bush, la cui erosione di popolarità (contenuta grazie alle buone condizioni delleconomia e ai rapidi progressi legislativi) è provocata in massimo grado proprio dallIrak. Ma all«operazione disimpegno» si frappongono numerosi ostacoli. Le «forze di sicurezza» cui dovrebbero essere devoluti gran parte dei compiti sono in ritardo sulla tabella di marcia: su 107 battaglioni previsti del nuovo esercito, solo tre sono nelle migliori condizioni per combattere.
I ribelli lanciano nuove offensive al fine di rendere insicure proprio le future «aree di sicurezza». Ed è significativo che il ministro della Difesa Rumsfeld abbia coniato una nuova definizione dellimpegno Usa: non dice più «guerra al terrore», bensì «lotta globale contro lestremismo violento». Mancano, come si vede, due parole chiave: «terrore» e «guerra».
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