Ezio Mauro, direttore di Repubblica, è o no un evasore fiscale per avere acquistato nel 2000 un super attico ai Parioli in Roma per una cifra attorno ai 2,810 miliardi di vecchie lire, dichiarando solo una parte di tali miliardi al fisco? 810 milioni li ha dati in nero, con 40 assegni anonimi di 20 milioni di lire ciascuno più un assegno di 10 milioni. La questione, dal punto di vista della legge fiscale, non è chiara, perché le nebulose e intricate norme sull’imposta di registro sulle vendite di immobili hanno subito continui mutamenti. Ma Eugenio Scalfari, fondatore e padre spirituale di Repubblica, ha stabilito, in un editoriale sul suo giornale, che chi faceva ciò che Mauro ha fatto nel 2000 è un evasore fiscale o un elusore: il che se non è zuppa è pan bagnato. Invero con questo termine si definisce l'evasione attuata con trucchi legali o apparentemente tali.
Il 2 luglio del 2006, infatti, Eugenio scriveva, su Repubblica da lui fondata e diretta da Mauro, un lungo articolo dal titolo «Chi ben comincia è a metà dell’opera» in cui elogiava i primi atti del governo Prodi bis, da poco al potere. E in particolare elogiava il decreto Bersani-Visco, che aveva modificato la tassazione di registro degli immobili mettendo fuori legge il regime precedente, quello in cui Mauro aveva pagato 810 milioni in nero. La prosa al riguardo di Scalfari è chiara: «La manovra si fonda interamente su una stretta di vite che ridurrà l’evasione e l’elusione». Tale azione, che avrebbe «ampliato la platea dei contribuenti grazie alla lotta all’evasione e all’elusione» consisteva, per la tassazione di registro degli immobili, in due principi. Il riferimento al valore catastale valeva solo se il valore dichiarato nel contratto era ad esso conforme. Inoltre la somma pagata per l’immobile dal compratore doveva essere «tracciabile». In altre parole, egli doveva far risultare gli strumenti finanziari con cui era pagata la somma (assegni bancari, assegni circolari, bonifico ecc.) e doveva indicare da dove provenivano i fondi utilizzati.
Ovviamente queste due norme bloccarono il mercato immobiliare. Infatti, facendo risultare il valore catastale nel contratto, non si poteva più versare in nero la differenza. E il pagamento sul valore effettivo dell’immobile, con l’aliquota del 10 per cento, oltre ad essere un onere molto pesante, comportava anche la tracciabilità delle somme con cui esso veniva effettuato. E ciò infastidiva il contribuente, che temeva che ciò desse la stura ad accertamenti del suo reddito Irpef, per stabilire se esso era congruo, rispetto alla cifra pagata per l’immobile.
Certo egli avrebbe potuto sostenere che aveva rendite finanziarie tassate al 12,5 per cento che non facevano parte del suo imponibile Irpef e che aveva usato parte di quell’investimento per raggranellare la cifra dell’acquisto dell’immobile agognato. Ma il fisco gli avrebbe creduto? Dunque, il mercato immobiliare si bloccò.
I contribuenti protestarono anche in relazione alla retroattività delle norme Bersani-Visco. Ma Repubblica le difese strenuamente. Essa seguiva l’indirizzo dettato da Eugenio Scalfari, per cui questa era una lotta sacrosanta contro gli evasori o elusori del fisco. Io ho sempre sostenuto il contrario, ossia che l’imposta di registro del 10 per cento è assurda e si giustifica parzialmente solo se la tassazione avviene sulla base del valore di catasto, che di solito è la metà o meno del valore di mercato dell’immobile. E ho sempre sostenuto che questo accertamento catastale dovrebbe poter valere anche se nel contratto è indicato un valore superiore dell’immobile, in quanto la regola fiscale è autonoma da quella del diritto civile.
Inoltre ho sempre sostenuto e sostengo che il principio della tracciabilità è aberrante, in quanto comporta che le vendite ed acquisti di immobili generano una attivazione del fisco per la tassazione del reddito. Ed invece le due cose debbono essere indipendenti, per evitare che il mercato immobiliare sia sottoposto a una ulteriore discriminazione tributaria. Ma spesso il legislatore fiscale non ha accolto la mia tesi, che è rimasta in minoranza.
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