La Repubblica della ragione

Caro Lussana, hai ragione tu. Sono rissosa e faccio di ogni cosa una questione di principio. Figurarsi quanto mi arrabbio se una questione di principio lo è davvero. Sono qui a chiederti di lasciarmi andare. Io voglio andare a lavorare in un quotidiano di sinistra.
Voglio avere, io pure, la verità in mano, come solo la sinistra, e come certi colleghi di sinistra che hanno superato i maestri. Mi ci vedo già. Con atteggiamento appena un po’ radical chic ma, per carità, sempre vicino alle lotte operaie, potrei finalmente guardarmi attorno con gli occhi di chi sa. Chi ha ragione e chi ha torto, e cioè nell’ordine la sinistra e la destra. Chi è degno di rispetto e chi può essere denigrato, e cioè nell’ordine la sinistra e la destra. Avrei vita più facile, ecco. Alle conferenze stampa, per dire. Potrei fare la mia domanda, magari scomoda ma magari no, senza che il resto del mondo in ogni caso pensi: «Eh, già, lo chiede perché è del Giornale».
Molti nostri lettori ricordano quanto fosse difficile girare con il Giornale in tasca negli anni Settanta e Ottanta e lamentano che spesso è ancora così. Si consolino. Se leggerlo è indegno, figurarsi scriverlo. Anche oggi, anno 2006. Chiedo a un assessore: «Scusi, ma questi interventi riguardano solo il vicolame?». Lui ride: «Vicolame?».

Nemmeno il tempo di scusarmi perché volevo dire vicoli e perché il termine rubato allo slang giovanile mal si adatta alla conferenza stampa che salta su una collega: «Vicolame solo per la illuminata testata che la collega rappresenta». Illuminata. O brillante, non ricordo. Ecco. Vicolame ha assunto valenza negativa solo perché l’ho pronunciato io, «quella del Giornale». La collega era di Repubblica. Allora, caro Lussana, è li che andrò, a Repubblica.

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