Requiem dell’amor di Patria

Marcello D’Orta

Cercavo nel vocabolario la parola «patroclino» quando mi si è parato davanti il sostantivo «patria».
Patroclino è un nome difficile, indica un tipo di eredità biologica in cui i discendenti hanno esclusivamente o prevalentemente caratteri ereditati dal padre; ma io penso che se si va di questo passo, la gente avrà più dimestichezza con tale aggettivo che col significato di patria, che pure dovrebbe essere noto a tutti: «Paese comune ai componenti di una nazione, cui essi si sentono legati come individui e come collettività, sia per nascita sia per motivi psicologici, storici, culturali e sim.».
Che fine ha fatto la Patria? Diogene con la sua lanterna cercava l’uomo, io non trovo un patriota («chi ama la patria e lo dimostra») nemmeno se accendo il Faro di Alessandria. Non parlo di un patriota del Risorgimento, di uno di quelli che affrontavano il plotone d’esecuzione gridando: «Viva l’Italia!», di un Morelli, di un Silvati, di un Pellico o di un qualsiasi carbonaro; mi andrebbe bene pure uno che amasse in forma tiepida il Paese in cui è nato, e fosse pronto a sacrificare per esso non dico la vita, almeno una gamba, un ginocchio, una caviglia. Ma niente, non lo trovo, nemmeno taroccato, falsificato, made in China o a Taiwan.
Già Leopardi lamentava il disinteresse degli italiani verso il proprio (glorioso) passato, rimpiangendo la scomparsa delle virtù civiche e biasimando il «poco (...) amor nazionale», ora il «poco» è diventato «niuno», il sentimento patrio è morto e sepolto, almeno tra i giovani.
Quando quelli della mia generazione (anni Cinquanta) andavano alle elementari e le medie, il nome Italia ancora aveva la forza di scaldare i cuori. Merito soprattutto dei maestri, che facevano studiare poesie o brani di prosa come L’inno di Garibaldi («Si scoprono le tombe, si levano i morti,/i martiri nostri son tutti risorti!»), Per la liberazione d’Italia («Bella Italia, amate sponde,/pur vi torno a riveder»), Lettera di Foscolo ai familiari (dolore per l’esilio), Il primato morale e civile degli italiani del Gioberti (da Le ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini) eccetera. Anche la lettura del libro Cuore era «mirata», perché con i racconti mensili (Dagli Appennini alle Ande, Sangue romagnolo, La piccola vedetta lombarda, Il tamburino sardo...) si ricordava che veneti o toscani, calabresi o lombardi, sardi o napoletani, s’era tutti italiani.
Questa letteratura è scomparsa dalle antologie scolastiche (scomparsa e ripudiata) e se qualcosa è rimasto, non è tenuto in conto dagli insegnanti. Oggi le parole d’ordine sono europeismo, cosmopolitismo, rifiuto d’ogni distinzione di nazione e di razza; l’imperativo categorico è: considerare gli uomini cittadini di quella comune patria che è il mondo. Chi la pensa in modo diverso è un fascista, un oscurantista, un reazionario.
In questo tempo di gite scolastiche, gli alunni invadono le piazze (la piazza: invenzione italiana) visitano musei (ammirando capolavori del Barocco e del Rinascimento italiano), siti archeologici (Pompei, Ercolano, Foro romano), edifici monumentali, palazzi e residenze storiche (come il Vittoriale), salgono i gradini del Milite Ignoto, e il concetto, il sentimento di patria è loro sconosciuto. In classe studiano (soprattutto) la storia, la geografia e la letteratura italiana (Dante, «padre della lingua italiana», Manzoni, che voleva l'Italia «una d’arme, di lingua e d’altare»), e dovrebbero sentirsi (e si sentono) italiani non meno che francesi, tedeschi, belgi, danesi, australiani... Com’è strano tutto questo.
In un mondo sempre più villaggio globale, «pensare» europeo in termini culturali, economici e politici, è giusto (e opportuno), ma perdere (rinnegare) la propria identità geografica, storica, linguistica, è come disconoscere il grembo materno.
Riferendosi ai suoi natali, Totò affermava: «Sono parte nopeo e parte napoletano».

Quanti come me (fatemelo sapere), si sentono italiani al cento per cento?
mardorta@libero.it

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