Ivan il delinquente si era nascosto, come una schifosa pantegana (chiedo scusa al topo) nel portabagagli dell'autobus. Così finiscono i guerriglieri del football, capibanda, dominatori nelle curve degli stadi, miserabili vigliacchi quando è ora di pagare il conto. A Genova non è morto (...)
(...) lo sport, lo sport è una cosa tremendamente seria, comunque è un'altra cosa. A Genova ancora una volta il calcio ha dato il suo segnale di resa, una fuga da ogni responsabilità, l'assenza del coraggio di scegliere, di assumere una decisione, forte, definitiva.
«Noi avremmo voluto giocare», hanno detto i due allenatori, di Italia e di Serbia e, con loro, i calciatori. Ecco uno dei problemi. Loro avrebbero voluto giocare. Perché? Per chi? Minacciano lo sciopero per motivi sindacali, giusti, comprensibili, e poi, quando c'è di mezzo l'incolumità fisica, la violenza dei tifosi, loro stessi si arrendono e non si ribellano, addirittura diventano complici applaudendo le gesta e i gesti di chi li sta mettendo a repentaglio. A Genova come a Roma dove hanno imposto la sospensione del derby, a San Siro dove hanno scaricato un motorino dalle gradinate, a Catania dove hanno ucciso un poliziotto.
Tredici milioni di italiani sono rimasti davanti al televisore, non per assistere alla partita ma per osservare le gesta degli hooligans serbi. Se la Rai avesse prolungato fino a notte la diretta da Genova, lo share sarebbe stato ancora più alto del 41 per cento fatto registrare martedì sera. È il piacere maledetto di sbirciare la violenza, di ascoltarne l'urlo, di aspettare, quasi, la tragedia. A Genova abbiamo anche dimostrato, laddove se ne sentisse la necessità, la nostra assoluta incapacità di affrontare l'emergenza, di prevenirla, di reprimerla con una logica strategica dintervento che non sta soltanto nell'uso della forza. Osservando le scene di Genova ho ripensato alla candidatura avanzata dalla nostra federcalcio per l'organizzazione dei campionati europei, quelli del 2012 e quelli del 2016, entrambe rispedite al mittente, bocciate senza esitazione per povertà di contenuti. C'è qualcuno che pensa di poter ospitare un torneo con ventiquattro nazioni ma non è capace di arginare cinquecento delinquenti, c'è qualcuno che ritiene di avere risolto il rischio dei disordini con la semplice installazione dei tornelli di ingresso; c'è qualcuno che è convinto che l'uso degli steward sia un deterrente per i facinorosi; c'è qualcuno che si oppone alla tessera del tifoso perché limita la libertà dei cittadini, c'è, infine, qualcuno che aspetta il 3 a 0 a tavolino per sentirsi felice e appagato. Il calcio italiano, la sua organizzazione, la sua testa, le sue gambe, forse anche il suo cuore, ormai a questo sono ridotti.
Lo stadio è una discarica, è un territorio franco dove ogni atto è possibile, dall'insulto, razzista e non soltanto, allo sventolio di bandiere e drappi di evidente segno politico, dal lancio di fumogeni all'esplosione di bombe carta. È la miseria di uno sport bellissimo e uguale in ogni parte del mondo ma orribile e diverso sui nostri prati che non sono nemmeno più verdi, insudiciato da gruppi di violenti che si radunano con il tam tam di internet in un rave party riservato al football, con il privilegio della diretta televisiva, confortata dalle immagini rallentate, dall'esaltazione del capobranco, dall'agiografia dell'eroe mascherato.
Ivan e la sua banda hanno approfittato di questo territorio libero e contaminato, l'Italia. La testimonianza di alcuni figuri che hanno spiegato di avere acquistato il materiale da stadio, fuochi artificiali e bengala, nei negozi di Genova, la loro sfilata, sin dal mattino, lungo le strade principali della città, tra fumi, lattine e bottiglie di vetro lanciate verso portoni e vetrine, mentre i passanti non capivano e la polizia assisteva e Genova srotolava il suo tappeto marrone a questa follia, l'ennesima, ribadisce la deriva di un sistema, direi di un Paese, sicuramente di questo nostro calcio che diventa notizia quando nulla succede. Ivan e la sua ciurma sapevano di poter entrare, circolare, agire, senza paura; se avessero osato avvicinarsi con un tronchese, un fumogeno in uno stadio inglese o tedesco o nei loro stessi palazzi di Belgrado, sarebbero stati puniti immediatamente, duramente, senza pubblicità, senza alibi.
Ora qualcuno parla e scrive di galere e di punizioni esemplari. La galera no, per Ivan e gli altri Ivan della feccia pallonara, il carcere è un luogo di happy hour dove affinare il proprio repertorio. Meglio sarebbe indirizzare e trasferire questa manovalanza verso servizi socialmente utili: rimettere a posto gli stadi, pulire le latrine, riparare le vetrate, gli automezzi, le strade, tutto quello che l'orda ha distrutto, danneggiato, violentato. Ovviamente senza corrispettivo in denaro ma con la presenza delle telecamere, per far vivere loro, finalmente, un reality da Pig Brother, da Porco Fratello, senza nomination ma con la pubblica vergogna di lavorare e di esistere.
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