La differenza è tutta nel numero. Nel mondo cristiano l’invasato reverendo Terry Jones, apprendista attizzatore di Corani è praticamente solo. O almeno in modesta e ininfluente compagnia.
Nel mondo islamico i fanatici pronti a scender in piazza per rispondere con roghi e violenze al gesto del loro omologo cristiano sono invece molti di più. E assai più pericolosi. Il primo a rendersene conto è il presidente americano Barack Obama. E la sua Amministrazione ieri stava valutando il da farsi. Prima di ricevere in serata una mano dallo stesso reverendo che ha annunciato di rinunciare all’idea di bruciare il Corano e che la sua decisione era legata alla decisione di spostare l’annunciato centro culturale islamico lontano da Ground Zero. Un accordo in questo senso è stato smentito dai responsabili del progetto che hanno però confermato di avere ricevuto una offerta per l’acquisto della palazzina destinata ad ospitare la Moschea dall’imprenditore immobiliare Donald Trump.
La minaccia di un’esplosione di violenza sembra comunque più lontana. Il rischio era che andassero in fumo, assieme ai libro sacro islamico, anche i tentativi della Casa Bianca di arrivare a una riconciliazione con l’islam più moderato e dialogante. E allora ecco Obama scendere in campo, liquidare la provocazione del religioso come una «tombola per i reclutatori di Al Qaida», agitare lo spettro di «gravi violenze in Pakistan e Afghanistan», lanciarsi in un disperato appello per tentar di bloccare la devastante commemorazione dell’11 settembre organizzata dal capo parrocchia di Gainsville, nello Stato della Florida. Pochi giorni fa, il comandante delle forze americane e Nato in Afghanistan, il generale David Petraeus, aveva già criticato Jones e i piani della sua chiesa di bruciare copie del Corano: rischia di avere effetti paragonabili a quelli delle foto dal carcere di Abu Ghraib, aveva detto.
«La trovata pubblicitaria che si appresta a realizzare rischia soltanto di mettere in pericolo i nostri ragazzi in uniforme – aveva detto Obama durante un’intervista alla rete televisiva Abc. Subito dopo aveva definito il progetto del reverendo «completamente contrario ai valori americani» e ricordato come la storia degli Stati Uniti si basi sui principi di «libertà e tolleranza religiosa». Di più però il presidente non poteva fare. Dovendo fare i conti con la Costituzione non poteva mandare la Guardia nazionale a bloccare il reverendo. O imporre allo spregiudicato Terry Jones di fermarsi per il bene della nazione. I primi segnali forieri di violenza arrivavano da oriente. Nel Borneo, in Indonesia, nelle Filippine passando per la Malesia l’India e il Pakistan, le organizzazioni fondamentaliste aspettano soltanto la prima scintilla di Gainsville per rispondere con incendi di proporzioni continentali. «Il governo del presidente Barack Hussein Obama ha l’obbligo di far sì che la libertà di religione sia protetta, ma non abusata», ripetono i militanti del Fronte islamico di Liberazione Moro (Milf), il maggiore gruppo ribelle musulmano delle Filippine. Gli oltranzisti indonesiani di Hizbut Tahrir annunciano mobilitazioni davanti all’ambasciata americana di Giacarta e in altre città dell’arcipelago. Minacce analoghe arrivano anche dalla Malesia.
Bagatelle rispetto a quanto potrebbe succedere in Afghanistan e Pakistan. Lì, l’estremismo talebano potrebbe approfittare della bravata di Gainsville per convincere gli indecisi che la guerra al terrorismo è soltanto un’invenzione, che gli americani e l’occidente combattono per cancellare l’islam e i suoi simboli.
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