Per restare un mito Mina smetta di cantare

È stata l’autobiografia musicale di una nazione, ma la sua voce negli ultimi anni si è fatta opaca Adesso sarebbe meglio che la divina tornasse tra noi umani mostrando i segni dell’età e non più l’ugola

Per restare un mito Mina smetta di cantare

di Marcello Veneziani

Mina è il nome di una divinità che si nega alla vista e delizia l’udito. Nella vita apparente compie oggi settant’anni, di cui la metà circa passati nella clandestinità, ma le divinità non hanno tempo. La visibilità rende famosi, l’invisibilità rende divini. E Mina ha scelto la via della divinità. Qualche maligno potrebbe dire che Mina è la Bin Laden della canzone, presente solo in forma di messaggi, ma quello è un castigo e un privilegio riservato ai ricercati. Però alla lunga anche l’invisibilità stanca e anche la musica venuta dalle sfere celesti, inattingibili allo sguardo umano, rischia di invecchiare. Per restare nell’ambito della divinità senza logorarsi, Mina dovrebbe ora smettere pure di cantare, e dopo averci resi ciechi di lei, dovrebbe ora renderci sordi e magari manifestarsi solo con gli odori e gli effluvi, come capita ai santi e alle madonne. È l’olfatto l’estremo senso in cui si manifestano le forme del divino.

Di Mina vorrei dire tutto il bene possibile, e l’ho già fatto più volte. Una volta sola tanti anni fa accennai ad una contestazione perché Mina scriveva una rubrica su un settimanale ed io dubitavo che fosse farina del suo sacco; ma lei mi scrisse un’adorabile lettera, in cui riuscì quasi a convincermi che era una scrittrice traviata dalla musica; forse perfino una filosofa, che aveva ripiegato sulla canzone. A quali gloriosi risarcimenti porta talvolta la vita, ti trasforma una mancata aspirazione in un ripiego così riccamente e lungamente consolato.
Vidi una volta da bambino Mina dal vivo, venne ad un veglione, come da noi si chiamavano allora i concerti, a Bisceglie. Ma interruppe la sua esibizione perché fu insultata da alcuni cafoncelli che gridarono allusioni pesanti alla sua vivace vita privata. E lei s’offese, giustamente.

Con Lucio Battisti per vent’anni Mina detenne il ruolo di Santa Patrona dell’Italia che è una repubblica fondata sul canoro, la cui capitale morale resta Sanremo. Poi Battisti passò all’invisibilità dell’aldilà e restarono solo canzoni spiritiche in coppia con lui. Il medium alle volte fu Mogol, il mitico. Poi si ricompose con un altro dio coetaneo, Adriano Celentano, che all’invisibilità preferisce l’intermittenza; talvolta appare, si concede, previo preghiere e offerte votive da versare alla sua sacerdotessa, Claudia Mori.
Avevo scritto anch’io perfino in un libro che sembrava alludere sin dal titolo a Mina, perché era intitolato La sposa invisibile, alla sua invadente assenza di cui ha parlato in questi giorni l’acuto Aldo Grasso. Cantavo il suo passaggio al mito, la definivo allieva di Pitagora, la elogiavo per aver lasciato sublimare la volgarità dei corpi nelle sfere invisibili delle armonie celesti. La consideravo iconoclasta di se stessa, incantatrice come una sirena, ma senza mai mostrare il suo corpo e le sue squame. Mi è sembrata un’ottima alternativa al lifting, alle pietose cure dimagranti, alla chirurgia plastica, difendersi dall’oltraggio degli anni e dei chili semplicemente sparendo dalla vista.

Anche perché una voce così intensa e viva che incita all’amore non poteva provenire da quella grassa e matura signora, già logorata ai tempi della vistosità, da infiniti studi uno e dalla tv in bianco e nero, quando appariva con la testa turrita e la risata sfacciata, accanto a Panelli e Luttazzi, ad Alberto Lupo, a Sordi e a Totò. Ha fatto bene, è stata una scelta tra la mistica e il marketing, assai felice. Complimenti. E per decenni ha continuato a mandarci dal suo minareto invisibile come una muezzin della mistica leggera, svariati messaggi e splendide canzoni che hanno deliziato la nostra vita, con quel lieve tocco di malinconia che si addice alla bellezza dell’amore, alle sue apparizioni e alle sue scomparse. Scorporò la sua voce, disincarnò il canto, e diventò la colonna sonora delle più intime tenerezze di molte generazioni.

Sono amico di Mogol e di Cristiano Malgioglio anche per devozione a Mina. Abbiamo continuato a vivere nella civiltà minoica anche dopo anni dalla sua assenza, come accade alle stelle di cui arriva la luce in terra anche se magari da anni sono spente e cadute. Ho perfino litigato con i miei figli, Federica in particolare, che non la sopportano e che spengono la musica quando viaggiano in auto con me; ma difendevo in Mina la mia epoca, la mia generazione, perfino il mio paese. Perché Mina è stata anche l’autobiografia della nazione in versione musicale. Ha provveduto all’educazione sentimentale del nostro paese, come Mike Bongiorno e il maestro Manzi hanno insegnato l’italiano essenziale per capirsi da nord a sud.
Ora, da qualche anno, Mina si è spenta o quantomeno si è fatta opaca, le sue ultime canzoni rivelano il peso degli anni, la stanchezza del tempo. Il mito è eterno finché dura, si potrebbe parafrasare. E anche gli dei alla fine vanno al crepuscolo. Restano le sue canzoni magnifiche del passato e perfino le sue versioni, a volte migliori dell’originale, di splendidi cantautori italiani, da de Andrè a Battiato, oltre Battisti e Celentano.

Ora forse non resta che riapparire in video, dopo il suo lungo viaggio tra gli dei e le sfere celesti.

A mostrare sfacciatamente la sua vecchiezza e a disinnescare il suo mito come un ordigno bellico; una mina, appunto. Dopo aver per anni esortato omericamente Mina alle canzoni, Cantami o’ diva, sarebbe giusto magari salutarti ora in tono più dimesso: ben tornata tra gli umani, Vecchia Mina.

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