«Per la rete in fibra ottica l’Agcom non accetta diktat»

In Italia capita di tutto, persino che un regolamento sulle reti telefoniche diventi il canovaccio per una farsa alla Goldoni. E proprio questo è accaduto. Il pretesto è la proposta di regolamento adottata dall’Agcom per disciplinare l’accesso alle reti in fibra che di qui a poco sostituiranno la vecchia rete in rame. Scopriamo che lo stesso documento è accusato di una cosa e del suo contrario. Per i concorrenti di Telecom Italia, l’Agcom li ha privati dell’unbundling, ossia dello strumento che consente loro di raggiungere l’abitazione dell’utente affittando la linea dell’operatore dominante. Per Telecom Italia, invece, l’Agcom si sarebbe piegata a una sorta di diktat governativo che «nottetempo» avrebbe imposto l’inserimento dell’unbundling in un testo che non lo contemplava. Come stanno le cose? Cominciamo con i concorrenti.
Se l’idea era quella di vedere riproposto l’unbundling del rame - ossia l’affitto del doppino telefonico del singolo utente - allora hanno ragione: non c’è. E il motivo è questo: una rete ereditata dal monopolio, costruita 80 anni fa nonché ammortizzata, non è la stessa cosa di una rete che deve essere costruita ex novo con enormi rischi imprenditoriali. Poteva l’Agcom limitarsi a versare il vino vecchio - ossia l’affitto del doppino - in botti nuove - ovvero le reti in fibra? No. Facendo ciò avrebbe compresso oltre misura il diritto di proprietà. che è la pietra angolare del diritto europeo, oltre che il viatico di qualsiasi liberale. La decisione è stata dunque quella di sperimentare una nuova strada che può riassumersi così.
L’accesso fisico alla rete (end to end) è garantito al concorrente che voglia raggiungere con la fibra il singolo utente. Ma questo servizio «chiavi in mano» deve essere richiesto appositamente a Telecom Italia che lo predispone dietro pagamento. Agli operatori meno esigenti è comunque assicurata l’offerta all’ingrosso di capacità trasmissiva, che consente di competere efficacemente nel mercato al dettaglio senza incorrere in costi particolari. Doveva forse l’Agcom soccombere a un diktat governativo per farsi venire questa idea? È una ridicola caricatura che fa torto allo sforzo progettuale intrapreso da mesi dalla nostra istituzione.
La regolamentazione è un affare troppo serio per essere lasciato ai dilettanti, soprattutto quando la posta in gioco è quella di trovare il punto di equilibrio tra concorrenza e investimenti. Ed è proprio sull’impulso agli investimenti che si innesta la questione del tavolo Romani, rispetto al quale si registra da tempo un certo nervosismo. Diciamo subito che è doveroso che un governo provi a fare il broker di un accordo di coinvestimento tra gli operatori in un settore così strategico. Oggi ciò avviene con trasparenza, allorché in passato non è stato sempre così, come sa bene chi ha vissuto la querelle sulla rete Telecom del biennio 2006-2008. Il terreno è quello della persuasione e lo strumento l’autonomia, poiché gli operatori sono liberi di prestare il consenso a un disegno condiviso di politica industriale. Altra cosa è la regolamentazione che obbedisce alla eteronomia di norme europee. E allora! Poiché c'è un giudice a Berlino nella persona della Commissione europea discutiamo serenamente di temi che sono squisitamente tecnici.

Non c'è tempo per improvvisazione e gossip. Sarebbe imperdonabile «buttare in politica» anche questo dibattito, magari per sottrarsi a regole proporzionate o, al contrario, per inseguire improbabili chimere.
*Commissario Agcom

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