Sarò diventato cinico, ma il fatto intorno al quale ruota tutta questa storia (vera o finta che sia) non mi scandalizza minimamente. M'infastidiscono di più le parole. Una donna ha cambiato sesso, è diventata legalmente un uomo, si è sposatao, ma è rimastao incintao e tra quattro mesi diventerà mammao. O babbao.
Giuridicamente questo tizio è un uomo. Il diritto è stato aiutato egregiamente dal bisturi e dal testosterone. Tecnicamente, però, quest'uomo resta una donna (così ha voluto, per tutelare - parole sue - i suoi «diritti riproduttivi»). Dichiara di avere sempre voluto avere bambini. Come uomo o come donna poco importa.
Il mio primo augurio è per il bambino, sempre che un bambino ci sia. Il mondo in cui nascerà non è perfetto, ma gli auguro di nascere lo stesso: per quanto imperfetto, questo mondo è meraviglioso.
Le cose che mi preoccupano sono altre.
La prima è che in faccende come questa c'è un indubbio disordine, e il disordine è brutto di per sé. Questo disordine nasce in gran parte - temo - dal trionfo di una mentalità tecnicistica. Nel difficile cammino umano verso la felicità gli ostacoli non vengono più affrontati in profondità. Ciò che si frappone tra me e la mia felicità va eliminato, sia esso di volta in volta un bambino, un seno, un pene, e così via. Non siamo più disposti a dare ascolto alla nostra sofferenza: lei è diventata il vero scandalo.
C'è una sorta di paura, di schifo a toccare la realtà. La persuasione che tutto si può fare, che tutto è possibile e dunque lecito contiene in sé questo schifo (e quindi una libertà a dir poco non limpidissima). Io non giudico una donna che si sente uomo, giudico questo precipitarsi nella tecnica come se fosse una scorciatoia per la felicità.
La seconda cosa che mi preoccupa è che questo modo un po' grossolano di procacciarsi la felicità si sposa a un linguaggio legalistico a dir poco soffocante. Questo signore che ha cambiato sesso è un vero concentrato di diritti: diritto a cambiare sesso, diritto alla procreazione, e così via. La legge lo dichiara uomo, e questo è ciò che conta.
Ma se la legge prende questa china, che è quella di trasformarsi nell'ancella del perché no?, con quale forza potrà poi difendere il debole dalla sopraffazione? E, soprattutto: come potrà difendere la libertà di tutti e non solo di qualcuno? Dietro i nostri «perché no?» e «che male c'è?» c'è infatti quasi sempre un filo di violenza e di sopraffazione.
Certo, ci si abitua a tutto, perfino a farci calpestare la dignità, e non una volta ma quotidianamente, minuto per minuto: e tutto ciò senza profferir verbo.
Ma almeno salviamo le parole, che sono le porte del pensiero: non cominciamo, per favore, a dire che tutto questo disordine, questa fiducia feticista nella tecnica, questo rifiuto della realtà, questo depotenziamento del diritto è «giusto» e «bene».
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