Nel ricostruire le dinamiche delle manovre sostenute da parte di forti gruppi di interesse contro il governo Berlusconi, vanno distinte le iniziative in corso. Da certo mondo delle banche, senza dubbio, si esercita una pressione sul quadro politico. Ma soprattutto contro Giulio Tremonti che ha chiesto in cambio delle scelte tempestive messe in atto dall'esecutivo (che hanno salvato i nostri istituti di credito da grossi guai) garanzie su prestiti alla produzione e chiarezza dei bilanci. Da qui una costante tensione e una recente irritazione tremontiana perché invece di usare i suoi bond le banche si sono messe a drenare risparmio privato e a spremere fondazioni a scapito del ruolo sociale di queste ultime. Nello sforzo di indebolire Tremonti, l'«ala banchiera» si salda anche a settori della grande impresa che giocano anche su manovre nel centrodestra per costruire rapporti più favorevoli a se stessi all'interno dei loro gruppi economici e di Confindustria.
Il fronte «dimezzare Tremonti» cerca soprattutto di utilizzare le contraddizioni nel centrodestra. E si distingue dall'altro fronte che ha una dinamica più propriamente «golpista». Il tutto con diverse contraddizioni, per esempio qualche grande banchiere che con Tremonti ha buoni rapporti, ha poi telefonato a Carlo De Benedetti per congratularsi dell'esito del caso Mondadori («e mi raccomando, Carlo, i 750 milioni portali da noi»), la mossa studiata per colpire al cuore l'impero berlusconiano. Il secondo fronte è guidato innanzi tutto da Giuseppe D'Avanzo ed Ezio Mauro che - vista messa in discussione la propria leadership in largo Fochetti e temendo anche la concorrenza di quotidiani come il Fatto - hanno costruito una strategia alternativa a quella, meno «dura», considerata da De Benedetti. D'Avanzo ha articolato l'attacco (coordinato con settori della magistratura che hanno ormai poca visione generale, ma come tigri che hanno assaggiato carne umana, non sanno rinunciare alla «caccia») in tre mosse: le cosiddette sexy telefonate (luglio 2008), il caso Noemi e quello D'Addario, con lo scopo di arrivare al Lodo Alfano ma anche alla sentenza sul caso Mondadori (imprevista anche da gli osservatori più attenti perché di una creatività inimmaginabile) avendo logorato il premier. L'iniziativa giornalistica ha trovato, poi, l'adesione totale della proprietà della Repubblica per due motivi: come si è già scritto le cose vanno male a De Benedetti e come nel caso M&C non riesce a fare le sue «magie» sotto i riflettori dell'opinione pubblica. Ha bisogno di scenari movimentati per salvare la ghirba. Conta poi su un rapporto con Rupert Murdoch che come al solito nell'entrare in un mercato straniero spintona per poi magari tornare a trattare. Infine su ambienti dell'industria energetica internazionale irritati per la capacità realizzativa dell'Eni. Insomma De Benedetti si è fatto una mezza idea che una spallata a Silvio Berlusconi potrebbe avere qualche serio appoggio internazionale. Al contrario di quello che spiegano informati osservatori in un'inchiesta di ieri sul Corriere della Sera.
Alla fine il Blitzkrieg debenedettiano da una parte punta a colpire a fondo Berlusconi, dall'altra parte dalla convinzione che comunque il compromesso cercato da banchieri&industriali frondisti ma non golpisti, non era utile alla «banda Cir & co.».
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