Il retroscena La mossa vincente? Lasciare a casa Israele

Con la conferenza di Washington sulla sicurezza nucleare il Presidente Obama, cinto di freschi allori raccolti a Praga con la firma dell'accordo con la Russia sulla riduzione delle testate nucleari, ha riportato almeno tre successi. Essi trasformano la sua immagine di esitante e ingenuo leader della politica estera americana in uomo di stato deciso e internazionalmente rispettato.
Il primo di questi successi è costituito dall'appoggio, ancora condizionato, della Cina ai suoi sforzi per ottenere l'approvazione del Consiglio di Sicurezza di sanzioni contro l'Iran. Il secondo successo è stato l'annuncio del'Ucraina di eliminare tutte le sue scorte atomiche. Il terzo meno apparente ma importante è stato l'avvio da parte del presidente americano, all'occasione della conferenza, di un processo di avvicinamento del Pakistan all'India. Esso appare garantito dalla volontà di Obama di diluire l'appoggio dato da Bush all'India nel campo delle armi nucleari.
In questi frangenti il conflitto israelo-palestinese ritorna ad occupare un posto di primo piano nella politica estera di Washington. La conferenza sulla sicurezza nucleare, appena conclusa, ne ha dato qualche segno interessante. Anzitutto per l'assenza di Natanyahu dopo che il premier israeliano aveva annunciato la sua partecipazione. Alcuni commentatori in Israele e fuori di esso, Italia inclusa, avevano giudicato questa voluta assenza come un grosso errore da parte israeliana. Tuttavia sin dal briefing dato ai giornalisti nell'aereo che riportava Obama da Praga si era avuto l'impressione che l'assenza di Nethanyahu fosse stata concordata con gli americani. Obama e Nethanyahu avevano interesse ad impedire che Egitto e Turchia tentassero di usare la conferenza per trasformarla in una occasione per denunciare il presunto armamento atomico israeliano. Questo avrebbe rischiato di deviare la conferenza dal suo scopo: quello di raggiungere un accordo internazionale sul controllo di materiale nucleare (plutonio e uranio arricchito) che da tempo i terroristi cercano di acquisire o rubare, per fabbricare una «bomba sporca» di cui tutti i governi hanno paura. Turchia e Egitto negano ora di aver voluto imbarazzare il presidente americano e hanno taciuto di fronte a una presenza israeliana significativa: quella del ministro Meridor responsabile dell'energia atomica di Israele. Altro segno interessante: non è stato firmato a Gerusalemme il progetto tecnico di costruzione del nuovo quartiere ebraico a Gerusalemme che aveva fatto naufragare il piano di «incontri ravvicinati» fra israeliani e palestinesi, patrocinato da Washington e approvato dalla Lega araba.
Intoppo burocratico o diplomatico? Non è chiaro ma è evidente che a Gerusalemme ci si rende conto che Obama non è più il presidente «debole e da educare» di tre mesi fa. É il leder forte e deciso del solo Paese alleato dello Stato ebraico col quale si può essere in disaccordo ma non imprudenti. Terzo fatto interessante accaduto alla conferenza di Washington: il lungo incontro fra Obama e il re Abd Allah di Giordania. Per quanto critico della politica di Natanyahu, il monarca hashemita sa che l'Olp e Hamas odiano la sua dinastia non meno di quanto essi odino Israele. Qualunque sia il piano che Obama sembra deciso di proporre o di imporre ai palestinesi e agli israeliani, nel prossimo futuro, nessun governo di Gerusalemme accetterà l'esistenza di uno Stato palestinese che non sia disarmato e sotto un controllo di efficace della sicurezza. In questo contesto un eventuale ruolo giordano in Cisgiordania potrebbe essere utile.

Comunque sulle vere intenzioni di Obama in merito al conflitto medio orientale se ne saprà di più alla prossima riunione dell'Onu nella quale i Paesi arabi islamici si preparano a lanciare un grande offensiva contro Israele. La grande incognita è se l'America di Obama userà, come è avvenuto in passato, il suo veto per difenderlo.

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