Il retroscena Né pace, né strappi dalemiani: solo tregua natalizia

Roma A un capo del corridoio c’è un (dalemianissimo) Nicola Latorre che, archiviato l’incidente del «pizzino», ha ritrovato tutta la sua verve umoristica: «Meno male che la crisi del governo ombra si è aperta a Borse chiuse, altrimenti sai che sfracello con le dimissioni di Chiamparino».
All’altro capo c’è un (veltronianissimo) Giorgio Tonini, uno uno dei ghost writer della lunga e orgogliosa relazione del segretario, assai più mesto: «È una tregua natalizia, il massimo di unità possibile», tira le somme della direzione. Ma si vede che non è contento per nulla.
Lo «strappo», l’«accelerazione», il «salto in avanti» che i pasdaran democrat cercavano di ottenere si è smussato e attutito nel consueto documentone unanimistico votato alla fine, e nel rinvio a dopo le Europee di quel «ricambio» della classe dirigente che Veltroni invoca. E che, sulla spinta delle inchieste che colpiscono ex Ds ed ex Margherita in giro per l’Italia, qualcuno pensava di poter accelerare per liberare il leader dalla morsa dei «vecchi» apparati. Certo, Veltroni ha messo nero su bianco molti dei cardini della sua proposta: dal modello presidenziale francese alla «vocazione maggioritaria» del suo partito, allo stop alla «anacronistica concezione» (molto dalemiana) delle «alleanze larghe di centrosinistra» necessarie a vincere in un Paese inesorabilmente «di destra». Ma sulla sua relazione sono piombate critiche feroci. «Nel miglior stile da Comitato centrale del Pci», rievocava un dirigente che ha vissuto quei tempi, «con la premessa “ottima relazione” cui segue il “tuttavia” cui segue la mazzata». E non è un caso se sono arrivate tutte, con qualche eccezione, dal gruppo dirigente ex Ds. Che nella direzione di ieri è apparso improvvisamente ricompattato, affiatato, unito dalle stesse parole d’ordine contro il «nuovismo» e i partiti «leggeri»: dal vecchio Reichlin al giovane Cuperlo, passando per Burlando e Latorre, Finocchiaro e Bersani, Fassino e D’Alema. Una sorta di silenziosa chiamata collettiva alle armi e all’orgoglio delle radici, di fronte al rischio di inabissamento politico o di future epurazioni. Dalla ex Margherita, per il resto poco visibile, si è unito il bilancio poco incoraggiante tratto da Francesco Rutelli: critiche aperte al segretario per la gestione del caso Villari e per quella petizione «Salva l’Italia» che «per mesi è stata la nostra unica iniziativa» ma di cui si è persa ogni traccia. «Stiamo perdendo posizioni, regredendo nell’elettorato: un terzo degli elettori della Margherita già non è più con noi» denuncia mettendo il dito nella piaga dell’elettorato moderato in cui non si sfonda. Bersani paventa un futuro di «abbandoni silenziosi e arrivi che non arrivano».

Claudio Burlando, il presidente della Liguria che da sindaco, ai tempi di Mani Pulite, finì in carcere per accuse poi risultate infondate, rievoca quella vicenda e confida: «Mi sono chiesto: se mi fosse successo oggi, sarei stato difeso dal mio partito come accadde allora? Non credo, purtroppo». Dietro l’unanimità con cui si è chiusa la direzione restano distanze che non sembrano colmabili. E che non si riducono solo all’eterno, rifritto dualismo D’Alema-Veltroni.

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