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Retroscena Voglia di restaurazione Sergio e il ruolo del presidente

«Tutti i nodi vanno affrontati in un clima di dialogo e confronto con le parti sociali e con il governo, che ha dimostrato in questi mesi una grande attenzione alla filiera dell’auto. In questo senso dalla Fiat, lo abbiamo già detto più volte, c’è la massima disponibilità». Queste parole ieri di Luca Cordero di Montezemolo hanno raffreddato un po’ la tensione venutasi a creare tra società torinese, sindacati e governo. Gli atteggiamenti di Sergio Marchionne non avevano certo contribuito alla serenità degli animi: distribuire un dividendo ai soci e il giorno dopo mettere in cassa integrazione trentamila lavoratori, era stato avventato. Così proclamare la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese senza aprire un vero confronto sul destino di migliaia di lavoratori per i quali Torino aveva ricevuto fior di risorse dello Stato. E così annunciare ogni scelta, compresa quella per certi versi positiva di spostare la produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco, senza mai un reale confronto non solo con i sindacati (quelli stessi che Marchionne si ritrova nel cda della «sua» Chrysler) ma anche con il governo. Così pretendere incentivi sull’unghia e filaserla in America invece di discutere con il ministro dell’Industria sulla cassa integrazione. Tutti atti colmi di arroganza. Tanto che ormai c’è chi nell’establishment finanziario dice, quando si parla di Fiat: «Ah, sì quella azienda di Detroit».
Eppure non mancano ragioni per le scelte dell’amministratore delegato della Fiat: Termini Imerese è stabilimento fuori mercato per la produzione di auto (anche se può essere ottima base per imprese diverse da quella torinese), poteva essere conveniente se arrivavano i nuovi sostegni promessi dal governo Prodi ma non sono partiti (e forse non è solo una sfortuna). I sindacati (soprattutto la Cgil) a Pomigliano stentano ad assumere un vero ruolo partecipativo e non colgono bene né l’occasione offerta né lo stato di emergenza in cui si opera. In generale l’impostazione data da Marchionne di un’impresa dalle caratteristiche multinazionali e non più società sorretta dalle complicità del potere, è sacrosanta e fondamentale per uno sviluppo aperto dell’economia italiana.
Questa scelta è stata in parte ostacolata anche da chi cercava di alimentare le divisioni nel centrodestra. Specie tra Claudio Scajola e Giulio Tremonti-Maurizio Sacconi, per riprodurre vecchie forme di sovvenzionamenti senza responsabilizzazione. Da chi cercava di scambiare grazie a pressioni sulla Confindustria marcegagliana (ferma su una linea di rinnovamento della contrattazione) una politica di mediocri salari per «tutti» in cambio di pace sociale negli stabilimenti Fiat. Da chi puntava su intese sottobanco con la Cgil per evitare moderne relazioni industriali non più condizionabili dalla politica. Le arroganze marchionniche restano tali, ma sono in parte giustificate dai trucchi che intorno alla sua leadership (e talvolta contro di lui) si sono realizzati. Ora però le tentazioni di restaurazione del ruolo imperiale della Fiat hanno mostrato il loro esaurimento.

Ne è crollato il baluardo: una Cgil dove il segretario per cercare di far vincere i suoi eredi designati sta tentando di far valere il voto dei «pensionati» dello Spi più di quello dei lavoratori in produzione. Le condizioni per un dialogo serio quello formalmente auspicato da Montezemolo ci sono. Naturalmente senza restaurazioni imperiali, senza trucchi e lasciando anche le arroganze a Detroit.

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