Roma Non è accompagnato dal fragore di microfoni e telecamere, come nei giorni del dopo lodo Alfano, ma il braccio di ferro che si consuma per due giorni tra Palazzo Chigi e il Quirinale è di quelli che lascia il segno. Quando giovedì Berlusconi sale al Quirinale per illustrare a Napolitano le varie ipotesi allo studio per la querelle sulle liste elettorali le distanze sono infatti siderali, con i due che per quasi un’ora sembrano parlare lingue diverse. Il capo dello Stato a dire che la soluzione del decreto legge è da escludersi, il premier a rispondere che non si può permettere alla «cavillocrazia» di togliere a 15 milioni di italiani «un diritto sacrosanto come il voto». Tanto che a sera, durante le riunioni che vanno avanti a Palazzo Chigi fino a mezzanotte insieme a molti ministri, più volte il premier non nasconde una certa irritazione per i paletti posti da Napolitano e per la prassi secondo la quale il Colle esamina i decreti prima che siano approvati («una cosa che non sta scritta da nessuna parte», ripete in privato arrivando anche ad ipotizzare di forzare la mano e approvare comunque il decreto legge).
Una distanza abissale, dunque. Perché l’ipotesi del provvedimento d’urgenza il presidente della Repubblica la esclude esplicitamente, pur dicendosi pronto a «farsi carico del vulnus» che rischia di condizionare la tornata elettorale. Che se davvero restasse orfana di Lombardia e Lazio, fa notare il premier durante l’incontro al Colle, non potrebbe che avere come conseguenza la piazza. «Il nostro elettorato - è il ragionamento di Berlusconi - non potrà mai accettare che dei cavilli burocratici gli impediscano di votare liberamente». E ancora: «La nostra democrazia non può essere appeso ad una firma». Perché, insiste il Cavaliere, un terzo del corpo elettorale chiamato alle urne resterebbe «privo di una vera rappresentanza politica e amministrativa».
Un muro contro muro, dunque. Anche se Berlusconi decide di mettere da parte l’irritazione e sceglie la via della mediazione. Così, in mattinata si apre un primo canale di comunicazione tra gli uffici giuridici di Palazzo Chigi e del Quirinale che iniziano a lavorare sull’ipotesi di un decreto interpretativo. Soluzione su cui si confrontano anche Letta e Napolitano quando il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sale al Colle per l’anniversario del Servizio civile. Il punto, insomma, resta il contenuto. Che non a caso sarà oggetto fino alle nove di sera di un’attenta limatura con il testo che viaggia avanti e indietro tra la presidenza del Consiglio e il Quirinale più d’una decina di volte. Alla fine, la spunta il Cavaliere. Perché il punto certamente più delicato è quello del Lazio. Delicato politicamente, visto che a differenza del caso Lombardia il Pd non lascia margini, e tecnicamente, visto che il pasticcio combinato al momento della presentazione delle liste non è proprio una quisquilia. In mattinata, insomma, in pochi avrebbero scommesso che il decreto interpretativo avrebbe riguardato anche la Polverini. Su cui il premier è invece categorico, smentendo la vulgata secondo la quale avrebbe puntato solo a risolvere il nodo Lombardia caro alla Lega. Tanto che la battaglia per il Lazio porta come conseguenza una lunga telefonata tra Berlusconi e Fini. Con il presidente della Camera che non nasconde il suo apprezzamento per la decisione di prendere a cuore la Polverini, candidata fortemente voluta proprio dall’ex leader di An.
Alle dieci di sera, dunque, arriva invece il via libera del Consiglio dei ministri e il Cavaliere - seppure ancora infastidito per aver dovuto trattare quasi due giorni ogni virgola con il Colle - è comunque soddisfatto.
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