Quando muore un giornalista di razza come Giorgio Bocca non si ha voglia di ricordare i suoi errori di gioventù né quelli senili. Tra i primi il razzismo antigiudaico di ventenne fascista, tra gli ultimi il razzismo antimeridionale (oltre l’estremo antiberlusconismo dopo aver lavorato nelle tv berlusconiane). Ma di mezzo c’è la carriera di una grande giornalista.
Di lui vorrei ricordare quel che i giornali, in testa il suo gruppo editoriale, probabilmente dimenticheranno: il suo revisionismo storico. Nell’83 pubblicò un testo revisionista, Mussolini socialfascista, in cui il saggio più citato era stato scritto da un ventiquattrenne di destra (il sottoscritto). Poi dialogò in ampia sintonia con Almirante su Storia Illustrata.
Poco prima dialogammo sull’Espresso e Bocca sostenne che la sinistra dovesse parlare alla destra e riconoscere le sue idee (Quelle due lettere aperte, sua e mia, furono accompagnate da un servizio «sdoganatore» di Paolo Mieli). Due anni dopo pubblicai in una collana di destra un libro a più voci sul fascismo a cura di Enzo Palmesano in cui Bocca il partigiano riconosceva a Mussolini e al fascismo di appartenere alla storia di famiglia del socialismo, di non essere stato razzista e totalitario, di essere assai diverso dal nazismo, di aver realizzato opere positive e di aver avuto un gran consenso popolare.
Insomma, sembrava un seguace di De Felice e un precursore in revisionismo del suo conterraneo e compagno di testata Giampaolo Pansa.
Che poi invece attaccò, con l’amaro in Bocca.
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