Contro il terrorismo le misure eccezionali non servono. Non serve limitare la libertà in nome della sicurezza, perché questo è uno degli obiettivi di Al Qaida. Per vincere una battaglia che è necessariamente di lungo periodo è invece necessario adottare misure politiche pragmatiche, realizzabili senza stravolgimenti e dunque sagge. In unepoca in cui i traumi provocati dagli attentati di matrice islamica provocano non pochi turbamenti anche in Paesi di grandi tradizioni democratiche, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il rapporto presentato ieri a Venezia dal Comitato difesa 2000 - un centro studi promosso dalla Fondazione Liberal e animato da alcuni dei migliori specialisti italiani in tema di sicurezza - suona come un richiamo alla ragionevolezza. La guerra al terrorismo non si vince adottando «misure frettolose e mal congegnate legate alla cultura dellemergenza o dettate dalla tendenza populista di mostrare i muscoli». Daltronde non è la prima volta che le proposte di questo think tank italiano, creato nel 2001, si rivelano convincenti. Il «decreto Pisanu», ad esempio, ha recepito diversi suggerimenti del Comitato. Ora si tratta di proseguire su quella strada, adottando ulteriori accorgimenti. Innanzitutto: «Un più stretto coordinamento tra le forze di sicurezza», osserva il professor Michele Nones. E poi alcune misure pratiche, più per prevenire che per punire. Ad esempio, si legge nel rapporto, «riportando alla piena efficienza alcune infrastrutture protette realizzate durante la guerra fredda e poi trascurate per ragioni di costo». Che cosa significhi lo spiega il generale Guido Venturoni, ex presidente del Comitato militare della Nato: «Si tratta di riattivare le postazioni militari che erano state studiate contro una minaccia sovietica: ad esempio le caverne scavate lungo le frontiere orientali che servivano a monitorare voli aerei e movimenti delle truppe». Oggi Al Qaida non muove soldati, ma quella infrastruttura può essere molto utile.
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