Non è una radiazione ma poco ci manca. La breve e fulminea carriera ciclistica di Riccardo Riccò è terminata ufficialmente ieri pomeriggio, con la sentenza emessa dal Tribunale nazionale antidoping del Coni (Tna): 12 anni di squalifica. Se proprio vuole, il corridore modenese, uno dei più acclamati e discussi atleti della sua generazione, capace di negare anche l'evidenza, se proprio vuole può tornare a pedalare nel 2024, a quarant'anni suonati.
E dire che lui, ineffabile, era andato avanti a raccontarsela e a raccontarla fino alla fine. Fino a domenica scorsa, quando su twitter aveva postato il seguente messaggio: «A.A.A. cercasi squadra che mi tesseri». Non aveva capito che era al capolinea. Non aveva capito che al Coni facevano maledettamente sul serio. Per lui, e per molti che gli sono attorno, era solo un'incredibile vicenda che alla fine si sarebbe aggiustata. Invece si è rotto tutto. Per il Tna il corridore un anno fa è stato protagonista di un'autotrasfusione. Una sentenza prevista e anche ampiamente anticipata dalle conclusioni dei periti del tribunale sportivo, perfettamente in linea con i colleghi della Procura di Modena che ora dovrà occuparsi dell'aspetto giudiziario. A sentir tutti, la notte del 6 febbraio 2011 Riccò rischiò di morire per un blocco renale dopo essersi reinfuso il suo stesso sangue conservato male nel suo frigor di casa. Il tutto confermato da otto testimoni.
Dodici anni a Riccò, con 20mila euro da pagare fra multe e spese giudiziarie: non è una radiazione, ma ci assomiglia molto. Fine delle trasmissioni, dopo qualche vittoria entusiasmante e molti inganni, passando in un amen dal secondo posto al Giro 2008 alla positività al Tour per epo, costatagli una notte in cella e due anni di stop.
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