Roma - Gliel’hanno consigliato alcuni colleghi, ma più di tutti la coscienza: Nicola Di Girolamo, il senatore accusato di associazione a delinquere e di contatti con la ’ndrangheta, è pronto a dimettersi.
La voce circolava già ieri, alcuni membri della giunta per le immunità l’avevano ipotizzato. «Cosa gli cambia - commentava un senatore del Pdl con il Giornale - rimanere senatore dieci minuti in più o in meno. Eviterebbe la carneficina dell’Aula». Ma nessuno poteva prevedere che il senatore confidasse il suo travaglio a Repubblica.
«Sono le 19.20 quando il telefono squilla»: inizia così l’intervista di Antonello Caporale pubblicata ieri sul quotidiano di Largo Fochetti: «Sono il senatore Nicola Di Girolamo. Vorrei far capire all’Italia che non sono un mostro, il male assoluto». E via uno sfogo, quasi un pianto. L’ammissione «delle responsabilità». Il grido: «Non sono un mafioso. Mi deve credere, mi dovete credere!».
Ecco Nicola Di Girolamo che parla. Per la prima volta da quando il suo nome è finito su tutti i giornali e le televisioni del Paese come uno dei 56 arrestati all’interno dell’inchiesta sul riciclaggio condotta dalla Procura di Roma e che coinvolge i vertici di Telecom Sparkle e Fastweb. L’unica differenza per Di Girolamo rispetto agli altri 55 era che, essendo senatore, è coperto dall’ombrello dell’immunità finché il Senato non decide diversamente.
Del suo primo salvataggio avvenuto a Palazzo Madama il 29 gennaio del 2009, quando l’inchiesta sul suo conto era solo all’inizio, già si è detto. Ora, per il secondo e ben più grave esame della sua situazione, in Senato era appena stato deciso che sarebbe stata l’assemblea a pronunciarsi. Tecnicamente, si è scelto il percorso dell’annullamento della nomina, con una mozione da presentare mercoledì in aula.
La giunta per le immunità sta intanto portando avanti la pratica di autorizzazione a procedere all’arresto. Il calendario prevede l’audizione di Di Girolamo davanti alla giunta martedì. Ma a questo punto il senatore potrebbe non presentarsi per l’audizione, e rassegnare le dimissioni martedì stesso. O addirittura domani. È la terza soluzione, il binario più rapido verso la consegna alla giustizia. Un’autoconsegna, a questo punto.
Cambia poco, in effetti, se si dimette. Sarebbe più che altro un atto di dignità. L’unica differenza è che l’Aula, anziché dibattere sulle colpe sue e di quei senatori che un anno fa sospesero la sua pratica, trasformandosi in un’arena, dovrà semplicemente prendere atto delle dimissioni. E votarle. In un contesto simile tutto sarebbe più dolce, meno penoso. Per Di Girolamo e forse per tutti.
«Ho le mie colpe, i miei peccati - racconta Di Girolamo -. Io non fuggo, non ho alcuna intenzione di sottrarmi ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria».
La cosa importante ora è «riscattare l’onore perduto davanti ai miei due figli, a mia moglie». Sono stati, questi, «tre giorni di martirio, in tre giorni è finita la mia vita».
«Avrò modo di spiegare, di illustrare» ai giudici che «hanno lavorato bene...». Le dimissioni, forse «già lunedì, sono una delle ipotesi cui penso».
Basta poco per «trasformare una persona magari ingenua in un malavitoso
incallito. Hanno preso me, il più innocuo, l’ultimo dell’ultima fila». Ma ora c’è da pensare ai ragazzi (di 16 e 19 anni): «Sono giovani e hanno diritto a non essere pressati». La politica, non il potere, «mi ha distrutto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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