La terra aveva già bussato due volte, verso le dieci e mezza e poi unora più tardi. «Siano abituati», dicevano nelle case. Qui non è una novità. È storia antica. Lultima volta, quasi cento anni fa, nel 1915, fu la Marsica. Avezzano rasa al suolo, peggio di una guerra. Di undicimila abitanti, allora, ne rimasero vivi trecento. Era una di quelle storie che gli anziani raccontavano, ricordavano. Storie per i nipoti, che i nipoti fingevano di ascoltare, come il Carso e la trincea. Quei vecchi non ci sono più. Come le case. Le case di Onna, Tempera, Paganica, Castelnuovo, Villa SantAngelo, Fossa, San Demetrio. E LAquila, arroccata lassù in vetta, come un pezzo di medioevo che resiste alla storia. Solo brandelli di muro. I superstiti guardano, immobili, con i volti di pietra. Quasi non parlano.
Gli abruzzesi li conosci. Non è gente che mostra le lacrime. Neppure adesso, cè una sorta di pudore, rabbia, sconcerto, fatalità. Se sono disperati non te ne accorgi. Non sono abituati alle sceneggiate. Sono secoli che si muovono lenti, come se avessero nel sangue lorgoglio dei sanniti, che prima di arrendersi a Roma hanno sputato lanima, senza rinnegare nulla. È gente che nel mondo cammina cauta, ma non si ferma mai. Questo è un Sud anomalo, con lo sguardo allAdriatico e il cuore sui monti, con il Gran Sasso che è un sovrano seduto e inaccessibile. Qui la gente conosce la terra e il passato, ma quando è arrivata la modernità lha assecondata con un certo fascino, con curiosità, quasi inseguendo una vecchia vocazione allavventura. Quando entri nei vicoli vedi ancora le donne in nero, con il velo che nasconde la testa e lascia solo la luna, pallida, del volto. È la memoria. Ma il resto è fuga, voglia di andare avanti. È il solco dellautostrada, che ha rotto lisolamento e ora porta gli abruzzesi ovunque, su verso Ancona, giù a Bari, dentro, con le gallerie che scavano le montagne, fino a Roma. Sono anni e anni che gli abruzzesi non emigrano per fame, ma per seguire qualche sogno, molti per il teatro, che qui resta la forma darte più nobile. LAbruzzo è lunica regione europea che non ha più bisogno dei soldi per le zone depresse. È uscita dal famoso «obiettivo 1» della Ue. È lunico caso in cui i soldi comunitari sono serviti a qualcosa. Ma loro, gli abruzzesi, non si sono mai sentiti arricchiti. Qui il capitale non è solo soldi. Cè anche la cultura. Basta ascoltarli.
Li vedi, davanti alle telecamere. Si guardano intorno e pensano a quello che dovranno ricostruire. Se chiedono aiuto lo fanno piano, quasi vergognandosi, come se la carità, in questo momento, è qualcosa di necessario, ma che si fa fatica a domandare. Lo senti quando raccontano. Senza resa. Come quella mamma che ha appena partorito. Si chiama Annalisa Angelini e ha solo 28 anni. Quando la terra trema lei è nel letto dellospedale. I medici le avevano fatto un cesareo alla pancia. È scappata con i punti, senza scarpe, le flebo attaccate e la madre con la bambina. Guido Liris, medico, ha estratto dalle macerie il cadavere di suo zio. Poi è tornato in reparto: «La terra trema sotto i nostri piedi, perché le scosse continuano. Ci sono donne che vedono morire figli, fidanzati, mariti, amici di una vita. Ho visto una coltre di nube che si levava dal basso fin su la cima, dove cè LAquila. È come se la città fosse sprofondata. Ho visto tutto questo e ho capito che cera solo una cosa da fare, continuare a lavorare».
I colleghi, quelli che guardano la tv, sono stupiti. Non si aspettavano tanto orgoglio. «Sono i friulani del Sud», dicono. E tu pensi che forse è vero, ma non capisci lo stupore. Forse non si ricordano di DAnnunzio e Benedetto Croce, di quella cocciutaggine così diversa e così abruzzese. Forse non si ricordano i cafoni di Fontamara o i personaggi di Chiedi alla polvere, di quel John Fante che anche in America non ha mai smesso di essere abruzzese. Cè una dignità che ti sta dentro. Quei nonni che dicono con voce calma di aver perso due nipotine. Hanno scavato con le mani nude, ma non ce lhanno fatta. Sono racconti scarni.
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