La ridotta dei postcomunisti

Arturo Gismondi

Il titolo di un giornale di Varsavia, il giorno dopo le elezioni annunciava : «In Polonia il comunismo è morto per la seconda volta» In effetti, alla maggioranza assoluta di due partiti moderati che governeranno la Polonia i post-comunisti del Sid hanno contrapposto un modesto 11 per cento dei voti che li relega ormai a forza marginale. L'esempio polacco, dopo quello dell'Ucraina, della Georgia, e dopo i precedenti di Praga, Bratislava e dei Paesi baltici è tutt'altro che isolato nell'Est europeo. A parte la Bielorussia di Lukashenko, il comunismo è del tutto cancellato in ogni parte dell'ex impero sovietico.
È un fatto che induce a qualche considerazione sulla natura, diciamo così singolare, del nostro Paese. Prima della caduta del muro di Berlino, e del collasso dell'Urss, si diceva che l'Italia era caratterizzata dalla presenza del più grande partito comunista dell'Occidente. Ancor oggi, l'Italia è il Paese d'Occidente ove le tracce della presenza comunista sono fra le più visibili. Dalle analisi dei sondaggi elettorali che riempiono i talk-show e i giornali sfugge curiosamente un dato fra i più rilevanti: è quello della sopravvivenza, nel nostro Paese, di una forza politica che dopo aver riempito di sé la prima Repubblica continua a riempire, in forme mutate, la seconda, che qualcuno ritiene transitoria verso assetti istituzionali diversi.
Stando agli ultimi sondaggi, i partiti dichiaratamente comunisti, quello di Bertinotti, quello di Diliberto, si collocano insieme poco al di sotto del 10 per cento dei voti. Non sono molti, ma sono di più di quelli del Pcf in Francia e della Izquierda Unida in Spagna, ciò che resta cioè di due grandi partiti comunisti europei e latini. Ma a costituire il nerbo dell'Unione di Romano Prodi, che punta sul governo dopo le elezioni del 2006, provvede la forza del partito maggiore della sinistra, i Ds, che avendo cancellato dal nome e dalle insegne i simboli antichi resta l'erede diretto del vecchio potere comunista: nel radicamento territoriale, nel sindacato, nelle coop, nelle organizzazioni di massa, culturali e del tempo libero, come l' Arci, nelle Università, nella scuola, nel mondo dell'informazione, alla Tv pubblica ma anche in alcuni grandi giornali ove è cresciuta una generazioni di giornalisti politicamente corretti.
Stando ai sondaggi più recenti, i due partiti neo-comunisti e i post del partito dei Ds sfiorano il 30 per cento dei voti, gli stessi messi insieme dal Pci di Berlinguer negli anni della massima espansione, nella Repubblica consociativa degli anni '70. Una simile espansione non è il risultato di un normale processo democratico poiché alla base di essa ci sono due eventi innaturali nella fisiologia democratica: la tempesta giudiziaria abbattutasi fino a cancellarli negli anni fra il '92 e il '93 tutti i partiti democratici, dal Psi alla Dc ai partiti laici minori che avevano governato la Repubblica nei decenni precedenti; e il «ribaltone» manovrato da Scalfaro al Quirinale che cancellò la prima vittoria di Berlusconi. Ambedue queste vicende traumatiche hanno aperto la strada al Pds come forza di governo, l'unico sopravvissuto fra quelli dell'«arco costituzionale» prodotto della fertile inventiva di Ciriaco De Mita negli anni '70.
Berlusconi ha pesato, dopo la vittoria del 2001, nel mondo della politica, Parlamento, governo, cariche elettive. Ma questo mondo è pressoché sovrastato in Italia da poteri non elettivi, finanziari, mediatici, burocratici, giudiziari, accademici, sindacali e corporativi, che, tutti insieme costituiscono quelli che si definiscono i «poteri forti». Questi poteri sono presenti, è vero, in ogni Paese avanzato ove la società ha creato spazi di autonomia. Il fenomeno in Italia, però, e si pensi solo ai poteri mediatico e giudiziario, che in più procedono appaiati, è più esteso che altrove, ed è anche più politicizzato.
Una fusione del potere di governo con quelli locali, già in buona misura in mano alla sinistra, e con gli altri, i non elettivi, desta o dovrebbe destare qualche preoccupazione. Qualche segno di inquietudine viene da una parte della sinistra. La scalata della Bnl da parte dell'Unipol negli ultimi tempi, ad esempio, ha incontrato resistenze nel sindacato, Cgil ed Epifani in testa. Occhetto ha dato forse voce a una inquietudine più generale quando ha parlato di una «degenerazione proprietaria» che minaccia la sinistra.
L'alleanza elettorale raccolta attorno all'Unione prodiana, un «compagno di strada» a Palazzo Chigi, quel che resta della sinistra Dc e dossettiana, e in più un partitino di socialisti allineati, somigliano molto, tutti insieme, più che ai fronti popolari degli anni '30, a qualcosa di più vicino ai nostri giorni sul continente europeo. Manca, è vero, un partito-guida, ma la egemonia di una formazione politica a ciò attrezzata, e in grado di intascare i dividendi di eventi così eccezionali come quelli citati è un fatto raro nelle democrazie europee, e mondiali. Raro, oppure unico.
a.

gismondi@tin.it

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