Roma - A rovinare la festa al povero Bersani, alla fine, ci è riuscito solo Romano Prodi.
Il segretario Pd aveva arginato l’offensiva della rinascente Unione, che premeva per andare in piazza tutti insieme, e condividere il palco della vittoria. «È una nostra manifestazione di partito, non di coalizione», avevano spiegato da largo del Nazareno ai dirigenti di Sel che insistevano. Alla fine si è giunti ad un compromesso, anche perché nel frattempo i dipietristi, senza chiedere permesso, avevano già occupato mezzo Pantheon con le bandiere Idv: in piazza sì, sul palco no, «parla solo Bersani», che non aveva alcuna intenzione di deprimere subito gli elettori con una riedizione delle foto di gruppo dell’infausto biennio 2006-2008.
Ma il leader Pd non aveva fatto i conti con lui, Prodi: il redivivo Professore spunta all’improvviso, quando la piazza è già piena e Bersani sta arringando con verve il suo popolo esultante (esordio fulminante rubato alla controfigura Crozza: «Ueh ragazzi, abbiamo smacchiato il giaguaro!»). Fende la folla, stringe mani, ignora D’Alema e Veltroni e tra gli applausi si dirige dritto vero il palco, lo scala e si piazza al fianco del segretario. Il quale ha un breve sussulto, poi lo abbraccia: «Ciao Romano, questa è casa tua».
Ecco: al pubblico è sembrato un colpo a sorpresa confezionato ad arte al Nazareno. Invece, dietro al palco, si coglievano sguardi basiti e irritazione. «Non ce l’ha fatta, ha dovuto rubare la scena a Bersani», sibila un dirigente vicino al segretario, e conferma: non aveva avvertito nessuno, Prodi, né concordato di salire sul podio: è piombato a sorpresa. «È venuto a prenotare il Quirinale, noi vinciamo e lui viene a incassare», inveisce un ex Ds di lungo corso.
Come sempre, la vittoria rischia di avere molti padri. Ma per Bersani quello di ieri resta comunque un giorno fausto: il segretario del Pd può rivendicare una vittoria di grande portata simbolica per il centrosinistra, e non manca di sottolinearlo: «È stata una valanga: nelle amministrative del 2006 stravincemmo prendendo 55 città, oggi ne abbiamo prese 66». E pazienza se, come notano i leader di Sel spuntati ieri festanti a Montecitorio (Mussi, Cento, Giordano, persino Paolo Ferrero), «se al ballottaggio andavano Boeri, Morcone e Cabras (i candidati del Pd, ndr) oggi era il Cavaliere a stappare champagne». Il Pd può rivendicare di averne comunque eletti tanti suoi, di sindaci. E poi, ragionano al Nazareno, «restiamo noi il baricentro di ogni coalizione possibile». Il Pd si divide tra chi, come il segretario o il capogruppo Franceschini, punta ad elezioni entro l’anno (con Bersani candidato, è l’idea) e chi spera in un «governo di transizione» per fare la legge elettorale e l’accordo con Casini, come D’Alema. Tra chi guarda a sinistra e pensa già ad un partito unico con Vendola e pezzi di Idv (dove Di Pietro incassa una batosta e De Magistris, quello che da pm con l’inchiesta Why not, poi abortita, fece cadere il governo Prodi, si prepara alla resa dei conti); e chi punta sul Terzo Polo. Ma la verità, dicono ai piani alti del Pd, è che «ora dipende tutto dalle mosse del centrodestra», e della Lega in particolare. «Se Berlusconi spariglia, e come Zapatero indica un successore, la Grande Coalizione cade e tutto si rimescola», spiega il senatore Ceccanti.
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