In palio non c'è solo un posto in classifica nella Coppa d'Africa, così come a novembre non si trattò solo di una semplice qualificazione ai Mondiali. In gioco c'era - c'è - molto di più. C'è l'orgoglio di due Paesi da sempre divisi da una forte rivalità. E c'è soprattutto quell'ubriacante, primordiale «necessità» di farla pagare al «nemico», se possibile col sangue. Giacchè proprio come nemici sono avvertiti ormai gli avversari in un gioco - sì, si parla di pallone - che è diventato a tutti gli effetti un sostituto, un succedaneo della guerra vera e propria. Se non già una guerra disputata con altri mezzi e per interposti atleti, per così dire. Con l'aggravante che il tutto si svolge in Africa, dove le tifoserie, che hanno assorbito il peggio di quel che si vede nei peggiori stadi europei (a partire dai nostri) sono più naif, nelle loro ancestrali pulsioni gladiatorie.
Si parla di Egitto-Algeria, gara in programma domani in Angola, e la tensione fra i popoli e le diplomazie del Maghreb, coinvolti dal rullar di tamburi e dalla febbre della pelota è già alle stelle. Già si vaticinano morti e feriti, e saccheggi, e incendi, e alte fiamme, e scalpi strappati agli avversari, e ulular di sirene e ospedali sottosopra, e scambi di frecce al curaro, via cerbottana, fra le cancellerie dei due Paesi in gara.
L'altro ieri l'Egitto ha messo sotto il Camerun per 3-1, e il destino - mai così cinico e baro - ha apparecchiato per i Faraoni la sfida delle sfide, la madre di tutte le partite, la grande rivincita, visto che allo spareggio del 18 novembre che si disputò a Khartoum, in Sudan, si impose l'Algeria per 2-0, mandando i tifosi cairoti a piangere sulle piramidi.
La compagnia di bandiera egiziana, l'Egypt Air, sta organizzando a tutta forza una quarantina di voli speciali per trasportare a Benguela la «fossa dei leoni» del Cairo, mentre da Algeri si preparano a partire orde di invasati catafratti in costumi che sono un trionfo dei colori nazionali: il bianco, il rosso e il verde.
Patetico, in un certo senso, il gesto della Lega Araba, che in un banale tentativo di gettare acqua sul fuoco ha incaricato uno dei suoi mozzorecchi, il signor Hisham Youssef, a «superare le divergenze» dei mesi scorsi e a «dimostrare che i legami storici tra i due Paesi sono più forti di ogni crisi effimera». Molto ci si aspetta dai media, giacchè una copertura mediatica «ragionevole ed obiettiva», opina Youssef, potrebbe giocare un ruolo fondamentale.
Insomma, tutto quello che si poteva fare - gli appelli, le esortazioni decoubertiniane, la prevenzione - è stato fatto. Il sangue può dunque cominciare a scorrere.
I cuori sono gonfi di speranze e di attesa soprattutto in Algeria dove la volta scorsa, per la vittoria della nazionale sulle «pantegane» del Cairo ci furono 145 attacchi cardiaci e 175 incidenti stradali, per non dire dei 14 morti e dei 250 feriti occorsi nel prosieguo dei festeggiamenti. Ma è sotto il profilo politico-diplomatico che il Cairo cerca, ardentemente desidera, una rivincita. Non è solo per i 21 tifosi egiziani rimasti feriti negli scontri del 18 novembre in Sudan. E non è neppure per gli 11 agenti di polizia e i 24 civili feriti al Cairo, nella sommossa succeduta alla fine della partita di Khartoum, dopo che la folla inferocita si era messa a marciare su Zamalek, quartiere della capitale dove abita l'ambasciatore algerino di cui si reclamava la pelle.
È soprattutto per quella «caccia all'egiziano» che si era scatenata fra le strade di Algeri. Il Cairo, quella volta, aveva addirittura convocato l'ambasciatore algerino, ritirando contestualmente il proprio. In campo era sceso addirittura il presidente Hosni Mubarak, con un summit interministeriale allargato anche ai presidenti delle due Camere ed ai vertici dei servizi segreti e delle forze armate.
Esagerato, vi pare? Non la pensereste allo stesso modo se foste stati fra quegli egiziani che erano dovuti tornare in patria in fretta e furia, con la coda tra le gambe, per sfuggire al «dalli all'egiziano» che si era scatenato fra le vie della capitale e di Orano. Non la pensereste così se vi chiamaste Naguib Sawiris, e di professione foste il presidente del gruppo Orascom, il quale denunciò danni milionari per gli assalti patiti dalle società affiliate al gruppo telefonico cairota.
Una vigilia al cardiopalmo, insomma.
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