"Rifarei Montalbano ma finora la Rai non m’ha chiamato"

L’attore: "Quando dissi "basta" feci una stupidaggine. Molto meglio la buona tv del cattivo cinema d’autore"

"Rifarei Montalbano ma finora la Rai non m’ha chiamato"

Roma - «Sono un fautore della lentezza. Permette di capire meglio le cose. Siamo bombardati da migliaia di notizie in tempo reale, ci sembra di sapere tutto, invece non approfondiamo nulla». Luca Zingaretti, classe 1961, romano de Roma ma siciliano «honoris causa», in realtà gira come una trottola. Ieri mattina è volato a Roma da Bologna, dove sta girando il nuovo film di Pupi Avati, per rientrarvi nel pomeriggio, giusto in tempo per una lettura nel quadro della rassegna «Regina pecunia». Stamattina sarà a Siena, dove si apre la quarta edizione di «Hai visto mai?», combattiva Festa del documentario «su temi sociali e di costume» che l’attore pilota dal 2006. Vorrebbe parlare solo del suo piccolo festival, nato attorno a una tavola imbandita e via via cresciuto nell’attenzione di stampa e tv, tanto da conquistarsi il sostegno del Segretariato sociale della Rai. Ma fa qualche eccezione.

Tre film, uno spettacolo teatrale, forse altri quattro «Montalbano», la direzione di «Hai visto mai?». All’anima della lentezza...
«Partiamo da Siena. Ogni anno dico che sarà l’ultimo. Poi vado lì, sento l’interesse del pubblico, gli sponsor sono incoraggianti nonostante la crisi, così torna l’entusiasmo. Ma certo è un momento strano per me. Mi sento confuso, pure come cittadino, mi pare così difficile raccontare l’Italia. La questione è anche antropologica, non solo politica. Come se fosse saltata la scala di valori, specie sul piano etico».

Il cinema, però, continua a praticarlo assiduamente.
«Leggo tanti copioni, vaglio molte proposte. In generale, penso sia meglio fare buona tv popolare che cattivo cinema d’autore. D’altro canto, se una cosa mi piace non guardo al numero delle pose. Ho fatto una particina in Noi credevamo di Mario Martone, sono Francesco Crispi, parlamentare della sinistra sin dal 1861, prima repubblicano mazziniano, poi sostenitore della monarchia sabauda. Già, il Risorgimento. A scuola si studia poco e male. E pensare che i nostri guai partono tutti da lì».

Con Avati, per «Il figlio più piccolo», invece, non sarà una partecipazione.
«Sono protagonista accanto a Christian De Sica e Laura Morante. Una storia dura, di soldi, di scatole vuote, di ingordigia. Parla di finanzieri d’assalto, molto disinvolti. Christian è un immobiliarista in crisi, piuttosto giuggiolone. Io faccio un suo collega, una specie di Iago».

Poi c’è il film di Daniele Luchetti, «La vita non la ferma nessuno», accanto a Elio Germano e Raoul Bova.

«A fine giugno. Un’altra partecipazione. Sono coetaneo di Daniele, m’ero trovato benissimo sul set di Mio fratello è figlio unico, la storia è bella. Potevo dire di no? Interpreto un amico del protagonista, diciamo uno spacciatore per necessità, anche simpatico, che fa analisi un po’ paradossali sullo stato dell’economia mondiale e ci prende».

Ha visto che il cinema italiano, sul fronte degli incassi, non se la passa troppo bene?
«Ho letto. Magari è vero che sta cambiando la fisionomia del pubblico, che gli adulti preferiscono restare a casa invece di immergersi nella "pipinara" dei multiplex. Non saprei. Certo è che i film vanno scritti e pensati meglio, bisogna spenderli lì i soldi. Non ci si può ritrovare al primo ciak con copioni malfermi, per la serie: speriamo in Dio».

Capitolo Montalbano: vedremo altri quattro episodi?
«Per dire sì o no le proposte devono fartele. E dalla Rai finora non sono arrivate. Ma io sono pronto. Sbagliai quella volta a dire basta. Infatti ci ho ripensato, era una stupidaggine. Guardi, non è questione di soldi. Montalbano è come un vecchio amico, la Sicilia mi manca, con Sironi ci si intende. Forse l’unico ritocco da fare è al tono delle gag: stanno diventando un po’ meccaniche, ripetitive».

Torniamo al documentario. Per la sezione «Uno sguardo sul mondo», dopo l’Iran del 2008, quest’anno è di scena la Cecenia. Perché?
«Perché nessuno ne parla. O ne parla, giustamente, solo quando un gruppo di terroristi ceceni dà l’assalto a un teatro russo, provocando un massacro. Un gesto folle, certo, con il risultato che tutto il popolo ceceno, a quel punto, diventa terrorista. È una guerra ignorata dai media occidentali, magari per non mettere Putin in difficoltà. E pensare che a Grozny regna il terrore, atrocità mostruose sono all’ordine del giorno. Sarà anche un modo per ricordare Antonio Russo di Radio radicale».

Lei ha detto in più di un’occasione che dirige questo piccolo festival perché si diverte «a rompere le scatole».

In che senso?
«Nel senso che nessuno, sulla carta stampata, fa più inchieste. L’informazione tv convive spesso con l’intrattenimento. Siena è uno spazio di libertà. In più il posto è bello, e non guasta, perché se uno mangia e beve in grazia di Dio le idee vengono fuori meglio».

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