Politica

La riforma dei servizi è solo un gioco di parole

Come li chiamiamo? Il dibattito sulla riforma dei servizi segreti in Italia ha avuto sempre questo problema pregiudiziale, che nome dare ai «nuovi» servizi segreti. Forse perché l'unica vera novità, nel riformarli, è stata sempre e soltanto quella di cambiarli di nome, per tutto il resto restando, più o meno, quelli che erano prima della riforma. Questa volta il problema si è ulteriormente complicato perché, una volta che si erano messi tutti d'accordo sui nuovi nomi - il Sismi, il servizio segreto militare, si sarebbe chiamato Ise, e il Sisde, il servizi segreto civile, si sarebbe chiamato Isi - qualcuno ha scoperto che servizi segreti con questi acronimi esistono già da tempo in Iran e in Polonia. Che fare?
Dopo cinque mesi di dibattito in seno al Copaco, il comitato di controllo sui servizi, si è riaperta la discussione, sono state avanzate da più parti nuove e fantasiose proposte, e finalmente si è convenuto, all'unanimità, che il Sismi, invece di Ise, si chiamerà Sie, Servizi per l'informazione e la sicurezza esterna e il Sisde, invece di Isi, si chiamerà Sin, Servizio per l'informazione e la sicurezza interna.
Per il resto, poche e non rilevanti modifiche rispetto al passato. Restano i due servizi, distinti e separati. Non si chiameranno più servizio militare e servizio civile, ma rispettivamente, servizio esterno e servizio interno: tuttavia continueranno a occuparsi, l'uno e l'altro, di ciò di cui si occupavano. Il coordinamento tra i due servizi, che in effetti non c'è mai stato, non si chiamerà più Cesis, ma si chiamerà Dis; tuttavia il coordinamento continuerà a non esserci, non avendone il Dis gli effettivi poteri, come non ce li aveva il Cesis. Il Copaco, il comitato parlamentare di controllo, continuerà a chiamarsi Copaco, ma, invece di otto membri, sarà composto da dieci, in modo che ci sia spazio, accanto ai controllori designati dai maggiori partiti della maggioranza e dell'opposizione, anche per un controllore della Lega: per la lottizzazione non c'è riforma che tenga, anzi le riforme servono per allargarla e per approfondirla.
In compenso, i poteri complessivi di controllo del Copaco, piuttosto che aumentati, sono diminuiti. Il controllo supremo sarebbe sempre nelle mani del presidente del Consiglio, che in effetti continuerà a delegarlo,come per il passato, a un suo sottosegretario: la proposta di mettere un ministro al posto del solito sottosegretario è rapidamente abortita. E non è nemmeno vero che i ministri della Difesa e dell'Interno siano stati espropriati dei loro poteri sui servizi segreti: resteranno come «referenti». Il ministro della Difesa, in pratica lo Stato maggiore, sarà «referente» per l'ex Sismi, ora Sie, e il ministro dell'Interno, in pratica il capo della polizia, resterà referente per l'ex Sisde, ora Sin. Con buona pace del controllori del Copaco e di quelli dell'ex Cesis, ora Dis, e dello stesso presidente del Consiglio o del suo sottosegretario, le mani che maneggeranno effettivamente i servizi segreti resteranno quelle dei generali dello Stato maggiore e dell'onnipotente capo della polizia.
Eppure una riforma, una vera riforma dei nostri servizi segreti questa volta è stata fatta. Ma non l'hanno fatta il governo e il Parlamento, e cioè i partiti e la politica. L'hanno fatta, come in tutti gli altri campi dell'amministrazione pubblica, i magistrati. I magistrati di Milano, approfittando dello scandalo provocato dal rapimento dell'imam Abu Omar, hanno prima indagato, intercettato e pedinato gli agenti del Sismi, a cominciare dal loro capo il generale Nicolò Pollari, che ha perso anche il posto, e hanno rovistato nei cassetti e nella cassaforte del servizio segreto, sequestrando i documenti; poi li hanno arrestati e/o rinviati a giudizio; poi hanno rivelato i loro nomi e le loro immagini, spedendone l'elenco dettagliato anche al Parlamento europeo; infine hanno abolito il segreto di Stato, senza del quale nessun servizio può essere, è e sarà mai più un servizio segreto. Più riforma di così!
Ci fu tuttavia una nemesi. Nel corso della riforma o, come è più corretto dire, della abolizione dei servizi segreti, ci è andato di mezzo l'inquisitore per antonomasia, l'onorevole Luciano Violante, «il piccolo Visinskj», come lo chiama Francesco Cossiga, il suggeritore storico dei magistrati giustizialisti. Violante è il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, quella che ha elaborato il testo della (finta) riforma dei servizi. Nel licenziare a tarda notte il testo della riforma, in un'aula ormai deserta (erano rimasti solo 4 o 5 commissari) il relatore Violante ha fatto votare e passare una norma per cui l'agente dei servizi segreti (e quindi anche il generale Pollari) può opporre ai magistrati il segreto di Stato. Ed è proprio contro Violante che si sono scagliati i magistrati di Milano, quando il poveretto ha tentato di salvare il salvabile. Il generale Pollari aveva infatti dichiarato che non si poteva difendere se non violando il segreto di Stato e aveva chiamato a testimoniare sia il presidente del Consiglio in carica, Romano Prodi, sia l'ex premier Silvio Berlusconi. Ma i magistrati avevano respinto le sue giustificazioni e si sono rifiutati di sentire i suoi testimoni. Per una volta, il grande inquisitore Violante, invece di suggerire e di infierire, e per togliere d'impaccio Prodi, si era schierato per il governo e per il Parlamento, e cioè per la politica e contro la magistratura. Ora Prodi ha sollevato il conflitto di competenza e si è rivolto alla Corte costituzionale. Forse Prodi non sa che quelli della Corte costituzionale sono «supremi giudici», ma sempre magistrati sono.

E che, nella attuale composizione, nella Corte ci sono undici giudici di sinistra contro cinque cosiddetti «moderati».

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