Riforma dell’appello Le perplessità sulla scelta di Ciampi

Francesco Damato

Non credevo che il presidente della Repubblica, per quanto sollecitato dai soliti settori dell’opposizione che hanno sempre cercato in questi anni di trovare al Quirinale una sponda per le loro partite, fosse veramente tentato di rinviare alle Camere la legge sulla cosiddetta inappellabilità delle sentenze penali di assoluzione emesse nel primo grado di giudizio. Anche se molti avevano avvertito una simile tentazione nel proposito da lui annunciato di «esaminare approfonditamente» le norme appena approvate dal Senato, pensavo con imperdonabile ingenuità che egli le avrebbe promulgate per ragioni, diciamo così, sportive.
Poiché era stato già preannunciato lo scioglimento delle Camere per il 29 gennaio, con qualche anticipo rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura, pensavo molto ingenuamente che Carlo Azeglio Ciampi avrebbe avvertito l’inopportunità politica di rimandare la legge al Parlamento mentre si accingeva a congedarlo. Predisporre contemporaneamente un messaggio di commiato alle Camere e un altro di rinvio di una legge per chiederne il riesame mi sembrava una forzatura, per quanto già fatta nel 1992 dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale però aveva finito per assumere a simbolo del suo mandato un piccone, che mi sembrava e mi sembra un arnese poco congeniale al carattere e alle abitudini di Ciampi, che infatti non si è poi opposto più di tanto alla ragionevole e conseguente richiesta del presidente del Consiglio di rinviare di un po’ il decreto di scioglimento.
A spingermi sulla strada dell’ingenuità, cioè a farmi prevedere non il rifiuto ma la promulgazione della legge che rende impugnabili le sentenze di assoluzione in primo grado solo davanti alla Cassazione, era stata anche una intervista del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Virginio Rognoni. Il quale non aveva certo risparmiato critiche al provvedimento appena approvato dal Senato, definendolo «estemporaneo» e scorgendovi «profili incostituzionali», ma aveva concluso dicendo: «Vediamone gli effetti. Se saranno quelli temuti, si dovrà in qualche modo provvedere». Invece Ciampi non ha voluto metterlo alla prova dei fatti. E sui presunti profili di incostituzionalità egli ha voluto anticipare la Corte Costituzionale, alla quale in ogni caso la legge sarebbe arrivata, e arriverebbe anche nel testo che le Camere si accingono a modificare, essendone prevedibile l’impugnazione in sede giudiziaria. Lo fanno prevedere, in particolare, le barricate irriducibilmente opposte alla riforma dell’appello dai magistrati d’accusa e di Cassazione.
Ormai è fatta. Peccato che Ciampi, forse a causa della sua scarsa dimestichezza con i giochi politici, se ne sia lasciato inconsapevolmente coinvolgere per qualche giorno. Peccato che egli abbia per un po’ contribuito a rendere ancora più teso di quanto già non fosse la conclusione di questa legislatura.

Che coincide sfortunatamente con l’epilogo del suo mandato presidenziale, che pure è stato ricco di momenti consolanti, qualche volta anche esaltanti, specie ricordando le delusioni e preoccupazioni riservateci dal suo più diretto predecessore, Oscar Luigi Scalfaro. Il quale arrivò ad estendere al capo di una Procura della Repubblica le consultazioni per la soluzione di una crisi di governo, peraltro la prima da lui gestita in un settennato che più infelice non poteva rivelarsi.

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