Elsa Airoldi
Torna Rigoletto, una delle opere più amate. Il Verdi più eseguito alla Scala. Nel febbraio 2001 (con ripresa lanno successivo agli Arcimboldi, sul podio Rizzi Brignoli) il titolo era stato il cuore dellanno verdiano. Assieme a Trovatore e Traviata, eseguiti a ritmo serrato luno dopo laltro nel giro di un mese. Insomma «la trilogia popolare», i lavori già capolavori. In particolare Rigoletto, dove Verdi punta dritto alla motivazione del suo teatro: luomo inteso nellinfinita varietà delle sue sfaccettature psicologiche. Una dimensione immanente in totale antitesi con le ansie misticheggianti della coeva produzione wagneriana. Lindividuo e le sue pulsioni resteranno per sempre il punto di convergenza drammatica della creatività verdiana.
È il marzo 1851. Sono passati gli «anni di galera». E con loro laffanno della commissione, la fretta, la fame. Gli entusiasmi risorgimentali. Verdi domina la scena, può cercarsi. Trovare la sintesi che consegna le parole alla musica e la musica alle parole. La consuetudine propone ancora forme chiuse e alternanza di arie e recitativi. Ma recitativi segnati da struggente espressività e sbalzati dalla «parola scenica». La formula illuminante che diventa magica proprio con il personaggio di Rigoletto. Lopera è complessa. Scorre su innumerevoli piani. Il dramma ha unasciuttezza quasi alfieriana. Pochi personaggi, azione veloce e colta nel momento in cui precipita verso la catarsi finale. Presenta squarci di straordinaria modernità, come i sussurrati vocalizzi cromatici a bocca chiusa che nel terzo atto rendono concretamente lidea della tempesta e tratteggiano la figura di Sparafucile.
Se per popolare intendiamo la vena melodica che infila luno nell'altra le arie più note dellintero repertorio operistico ottocentesco, allora Rigoletto è anche popolare. Ma certo non facile. Per mille volte, parlando di Riccardo Muti, fulcro delle celebrazioni verdiane, ci siamo sentiti di decretarne la superiorità assoluta in fatto di fedeltà e comprensione: «Il più grande direttore verdiano». E ora, che Muti non cè più, e anzi si tiene lontano come se non fosse mai esistito, come se fosse stato ingoiato dal nulla, che dobbiamo dire? Alla Scala, da questa sera, Verdi appartiene a unaltra grande bacchetta. Quella di Riccardo Chailly che torna dopo sette anni di assenza giocati altrove come meglio non si poteva. Intanto alla Verdi, poi, da qualche mese, nella prestigiosissima Lipsia. Dove dirige tutto. Chailly, che ha giustamente preteso dalla Scala un progetto, è previsto il 7 dicembre prossimo con Aida (nuova versione di Zeffirelli) e nel 2008 con Manon Lescaut. Più varie ed eventuali, anche in team con Lipsia. Parliamo di un figlio darte e di uno di noi. Allievo, compagno, amico (nemico?) di tutti quelli che a Milano e nellorbe sono impegnati nel suo campo. Anche se non lavesse sottolineato lui è chiaro che il suo Rigoletto è un altro.
Un Rigoletto non solo aperto a puntature e fioriture non previste dalla partitura, ma decisamente più istintivo e teatrale. Laddove Muti consegna anche a Verdi (ed è la grandezza del suo teatro in musica) gli scrupoli generalmente riservati alla letteratura strumentale. Il paragone è dobbligo, ma solo per dire che i due Riccardi non potrebbero essere più diversi. A vantaggio, per Chailly, di unimmediatezza che alla prove generale ha meritato entusiasmi da stadio. E se non cè stato il grido «un milanese per Milano» cè mancato davvero poco. Il cast, simile a quello del 2001, propone ancora Leo Nucci, 30 anni di Scala e 400 Rigoletti. Andrea Rost-Gilda. Mariana Pentcheva-Maddalena. Il Duca è largentino Marcelo Alvarez, Sparafucile Marco Spotti, Monterone Ernesto Panariello. Il coro ha cambiato Roberto Gabbiani con Bruno Casoni.
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