Rimandato «sain dai» l’«imprimetur» del loft

Gentile Granzotto, so quanto abbia in uggia termini per così dire «modaioli». Condivido pienamente. Però mi dovrebbe dire ora come la mettiamo in casa nostra, con «Il Giornale». Mercoledì 20 leggo sui rifiuti che «la problematica è imbarazzante». A pagina 4 il titolo: «La trattativa con i radicali agita il “loft”». Dati i tempi in cui ho studiato io conosco solo (un po’) il francese e il tedesco. Può dirmi il significato della parola «loft»? E infine, a pagina 9, leggo: «Così come molto probabile è un upgrading per il sindaco di Cittadella». Chiedo un suo autorevole intervento.


Sì, forse stiamo esagerando, caro Meneghetti, però, anche lei, cerchi di stare un po’ al passo, ecchediamine. Per «loft», si intende fra l’altro un largo spazio non ostruito da muri divisori nato generalmente per usi industriali o commerciali e adattabile ad alloggio o ufficio. Ma ora, nel linguaggio della comunicazione, del barnum mediatico, «loft» sta per Partito democratico, come una volta Bottegone stava per Partito comunista e Balena Bianca per quello democristiano. Questo perché quel radicalsnob di Veltroni ha voluto installarsi, in quanto segretario del Piddì, in un (semi)loft della romana Piazza Sant’Anastasia. Non ci resterà a lungo. Il loft va bene per farsene una garçonnière extralusso e molto acchiappante, non per essere la plancia di comando del partito dei sogni e delle chimere. E poi non c’è nemmeno lo spazio per ricavarne un bugigattolo da destinare al presidente del Piddì, il desaparecido Romano Prodi. E poi tocca fare le scale e il progressista tende a battere la fiacca. E poi porta o quanto meno porterà di qui a poco, jella. Ciò precisato, mi unisco a lei nel deplorare l’imperante sciatteria linguistica. Ma dove sono finiti i problemi? Visto che oggi pare ci siano solo problematiche? E la «dinamica della situazione»? E «interagire»?
In quanto all’abuso, spesso ingiustificato, del vocabolario inglese abbiamo già detto e ripetuto. Ma non c’è niente da fare, la fregola è incurabile, alimentata com’è dal gergo economico e tecnologico e dal deserto culturale che portò una giornalista televisiva a dire che la tal iniziativa era stata rimandata sain dai e una sua collega ad informare che il tale provvedimento aveva avuto l’imprimetur del governo. Non dico aver studiato il latino, ma il solo sapere che è esistita quella lingua avrebbe impedito loro di storpiare, anglesizzandoli, «sine die» e «imprimatur». Il bello è che, ossessionati dall’idea che tutto è inglese o riconducibile all’inglese, quelle teste matte riescono anche ad anglicizzare la lingua di Shakespeare: Un «mistic river», credo sia il titolo di un film, è diventato infatti «maistic river». Ma senta questa: un paio di giorni fa mia figlia Camilla, che pure è cresciuta (nemmeno sfiorandoli) fra distese di vocabolari, che pure non mi ha mai sentito pronunciare «territorio», «percorso», «problematica» e mai e poi mai una parola in englishiano o italiese che dir si voglia, indicandomi un simbolo comparso sul visore dell’automobile se n’è uscita con un: «Che aicona è?». «Aicona? Si dice icona» le ho risposto facendo un soprassalto che per poco non mi ritrovavo nell’altra corsia. E lei, senza scomporsi: «Ma in inglese non è aicon?».

Capito, caro Meneghetti? Siccome in inglese è aicon per questi cervelli di gallina in italiano deve essere per forza «aicona». E pensare che Camilla non ha nemmeno più l’età per metterla in castigo e farle scrivere tremila volte «icona» (il penso, si chiamava ai miei tempi).

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