Il riscatto di Gibson inizia da un pupazzo (e da Jodie Foster)

Il film The Beaver dell’amica regista accolto da applausi di critica e pubblico. L'attrice: "Non so se la pellicola sia stata terapeutica per lui, so che è un grande attore"

Il riscatto di Gibson inizia da un pupazzo (e da Jodie Foster)

Cannes - È tornato Mad Max, oppure Mad Mel, la luce suicida del suo sguardo in Arma letale, il martire plurimartirizzato di Braveheart, il cantore cruento di La passione di Cristo, il cantore selvaggio di Apocalypto, l’attore «più amato», secondo Jodie Foster, più odiato, secondo i mass media americani, degli ultimi anni. Sessista, razzista, violento, alcolizzato, scrivono quest’ultimi; «leale, riflessivo, profondo» ribatte lei. «Ciascuno risponde dei propri atti e io non sono qui per scusare i suoi. Ma per il mio film ci voleva qualcuno che fosse al tempo stesso brillante e drammatico, uno che sapesse che cosa vuol dire l’impulso distruttivo e il cercare di non restarne stritolato. Mel Gibson, insomma».
The Beaver ci ha messo un anno prima che la produzione si decidesse a distribuirlo. Mad Mel ci era ricascato, pestaggio della moglie, richiesta di divorzio con tanto di registrazioni di minacce e di offese accluse agli atti, un altro film, insomma, che però aveva a che fare con la vita e non con la finzione scenica. Quando finalmente è uscito negli Usa, la critica ha storto il naso (ma ha comunque salvato lui), il pubblico ha girato le spalle. «Non è un film per americani» dice senza tante perifrasi Jodie Foster, che l’ha diretto e interpretato. «Negli Stati Uniti hanno successo i generi ben precisi, la commedia, il dramma, il poliziesco, eccetera... Qui c’è una storia complessa, che può disorientare, che va seguita. Sono sicura che in Europa andrà meglio e d’altra parte si fanno film perché si amano, non perché si pensa che avranno successo. Film, sia chiaro, non proclami o messaggi: io non predico, faccio la regista, mi pongo delle domande, cerco di raccontare ciò che mi interessa».
The Beaver è la storia del crollo di Walter Black, sprofondato nel buco nero della depressione. L’industria di giocattoli di cui è manager va male, il suo matrimonio va peggio, il figlio più grande ha paura di diventare come lui e annota in maniera maniacale tutti gli elementi fisici e psicologici in comune, per poterli poi eliminare, il più piccolo scivola nel mutismo e nell’auto-isolamento, la moglie, alla fine, lo mette fuori casa. Tenta il suicidio Walter, ma fallisce anche in questo, come se nemmeno morire fosse alla sua portata. Condannato a vivere, cerca un’alternativa all’ansia che lo paralizza e lo divora: inventarsi un’altra identità, un nuovo io che prenda il posto del vecchio, che faccia tabula rasa del passato, che viva solo nel presente. La trova in un pupazzo di stoffa, con il volto e il corpo di un castoro: gli dà voce, è il suo alter ego, gli dice come deve comportarsi, cosa fare, cosa pensare. All’inizio l’esperimento funziona e un equilibrio viene ritrovato: ma è un equilibrio squilibrato, non può durare, prepara la catastrofe.
«È chiaro che siamo di fronte a un problema di schizofrenia mentale», dice Jodie Foster, che nel film è Meredith, la moglie di Jack. «C’è un bipolarismo fortissimo, passività ed esaltazione portati al loro massimo. A me interessava esplorare la psicologia di uno che comunque cerca a suo modo di resistere, di combattere, di cambiare. Conosco anch’io il peso della solitudine, e insieme il suo fascino pericoloso. The Beaver racconta anche questo, la necessità degli altri».
Jodie Foster è nel mondo dello spettacolo da quando era bambina. A tre anni troneggiava nella pubblicità della Coppertone (Ricordate? La bambina a cui un cagnolino tirava giù il costume...) a otto esordiva nel cinema, a nemmeno quattordici era la prostituta bambina di Taxi driver, con Sotto accusa ha vinto il suo primo Oscar come migliore attrice, con Il silenzio degli innocenti il secondo... Ha una laurea con indirizzo letterario, una casa di produzione, ha pensato a lungo di fare un film su Leni Riefenstahl, ha dei figli, ma non ha un marito, è considerata una donna molto intelligente e molto controcorrente. La scelta di Mel Gibson si spiega anche così, due esseri non politicamente corretti che si riconoscono e si capiscono senza bisogno di troppe spiegazioni.
«The Beaver è anche un film sulla famiglia» dice ancora: «È una sorta di tappezzeria della nostra vita, un fardello e però un’ancora di salvezza». Nel film, per autodifesa, Walter cerca di farne a meno facendone egualmente parte: è il castoro che parla e agisce per lui, che riannoda i fili del rapporto. Sa che è una finzione, ma è l’unico modo che ha per sopportare la realtà. Farne a meno significa ritornare a ciò che è stato, abbandonarsi di nuovo a quel nulla passivo che lo distrugge. Arriva però il momento in cui il confine si confonde, la finzione si fa realtà e impone una scelta, uno scontro fra ego che porta alla resa dei conti.
Ben recitato, senza sbavature, The Beaver allinea nel cast Jennifer Lawrence (Un gelido inverno) nella parte di Nora, la ragazza amata da Jaredh (Zachery Booth), il figlio diciassettenne di Walter, così spaventato dalla schizofrenia paterna da cercare di annullare la propria personalità per non doverne poi sopportare il peso.


Alla domanda se per Gibson sia stato in fondo terapeutico interpretare questo ruolo, Jodie Foster oppone un no comment. «Non ho idea, non voglio rispondere, è un’ipotesi. Quel che è certo è che Mel è un attore straordinario, il meno ingombrante e il meno problematico con cui abbia lavorato».

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