Roma

Il riscatto del povero «travet»

Il riscatto del povero «travet»

Laura Novelli

Un uomo minuto ed elegante avanza con due valige mentre la scena centrale - un tavolo e qualche sedia - ruota lentamente su stessa. La musica è alta e nella penombra serale del momento, il suo incedere preannuncia i segni di un dramma che ricapitola il senso di essere uomini - e padri - nell’età moderna. Inizia così l’allestimento che Marco Sciaccaluga, regista incline da sempre a rileggere con acuta sobrietà i classici, dedica a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, un’opera entrata di diritto nella storia del teatro del ’900 e considerata il capolavoro del drammaturgo statunitense, recentemente scomparso.
Quell’uomo stanco e non più giovane, chiuso nella sua giacca grigia da perfetto travet, si chiama Willy Loman e trova in Eros Pagni un interprete duttile e intenso. D’altronde, sembra proprio che tra Miller, Sciaccaluga e Pagni si sia instaurata da qualche anno una felice corrispondenza di intenti, visto il successo riscosso qualche stagione fa con Un nemico del popolo (coprotagonista un ottimo Gabriele Lavia) e vista la toccante incisività di questo nuovo allestimento «milleriano». Nuovo allestimento che fa i conti con un testo ovviamente molto frequentato (debuttò a Broadway nel ’49 con la regia di Elia Kazan e, sulle scene italiane, è stato interpretato da grandi attori quali Paolo Stoppa e Umberto Orsini), ma che ancora oggi suona come una profetica indagine sui mali della società, condotta con un linguaggio persino rivoluzionario, incline a contaminare lo stile realistico dominante con accenti psicanalitici e surreali.
Già nel primo dialogo con la moglie Linda (la brava Orietta Notari), quando Loman/Pagni posa le valige a terra e confessa il forte disagio verso la sua professione, verso il mondo (palazzi e alveari di finestre che lo circondano e lo opprimono), verso i figli ormai adulti (Biff/Gianluca Gobbi e Happy/Aldo Ottobrino), possiamo intercettare i semi della tragedia a venire. Dopo un vita di lavoro e sacrifici, il solo desiderio che Willy ha è di assistere alla scalata sociale dei suoi ragazzi, in particolare del prediletto Biff, il quale però è in aperto contrasto col padre (e col mondo) e rincorre valori diversi dai suoi. La rottura è tale che il vecchio genitore passa da stati di angoscia a momenti di suggestivo ritorno al passato. Ma se lo scontro padre-figli è qui sostanziale allo svolgersi della trama, sotto bisogna leggervi le folli discrasie di un modello di vita che insegue il denaro e il successo come ideali primari. A costo di confondere ruoli e sentimenti. A costo di compromettere i legami più forti. A costo, persino, di rinnegare l’esistenza stessa: Loman si suiciderà per garantire al figlio la somma del premio assicurativo.
In questo spettacolo la regia lascia spazio all’interpretazione, quasi che - giustamente - tutto stesse già nelle parole e bastasse poco di più per farlo arrivare al pubblico. I duetti tra moglie e marito funzionano splendidamente, mentre più acerba risulta la prova dei due figli. Nel complesso, però, i quattro protagonisti reggono assai bene la solida impalcatura di un testo oggi quanto mai attuale.


Al Quirino fino al 27 novembre.

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