A rischio risparmi per 39 miliardi

L’unica alternativa per fare cassa è rivedere i coefficienti, penalizzando le rendite dei giovani

da Roma

Massima confusione, nessun risultato in vista: questa la situazione alla vigilia della trattativa sulle pensioni fra governo e parti sociali. I problemi aperti sono, sostanzialmente, due: sindacati e governo vogliono superare lo «scalone» introdotto dall’ex ministro Roberto Maroni, che porta l’età pensionabile da 57 a 60 anni dall’1 gennaio 2008, ma non sanno come compensare i mancati risparmi di spesa; si parla della revisione dei coefficienti di trasformazione, in base ai quali si calcolano le pensioni ma si rischia, così facendo, di diminuire ancora gli assegni futuri.
Come funziona lo scalone. La riforma del 2004 prevede, dall’1 gennaio 2008, nuovi requisiti per il pensionamento d’anzianità: per i lavoratori dipendenti l’età passa da 57 a 60 anni con 35 annualità contributive (oppure 40 anni di contributi senza il requisito dell’età anagrafica); per i lavoratori autonomi iscritti all’Inps, l’età passa da 58 a 61 anni (sempre con 35 anni di contributi, oppure 40 senza il requisito dell’età). Dal 2011 l’età sale di un altro anno: 61 anni per i dipendenti, 62 per gli autonomi. Infine, dal 2014, l’età sale a 62 anni anche per i dipendenti. Le donne fino al 2015 possono andare in pensione a 57 anni d’età (58 anni le lavoratrici autonome) se optano per il sistema contributivo.
I risparmi dello scalone. Lo scalone è stato introdotto perché consente forti risparmi di spesa previdenziale. Secondo i dati della Ragioneria dello Stato (vedi tabella in alto), la riforma consente risparmi per 486 milioni nel 2008, che salgono a 4.513 milioni nel 2008, 7.230 milioni nel 2010, 8.917 milioni nel 2011, 9.172 milioni nel 2012, 9.047 milioni nel 2013. Come rileva l’ex sottosegretario al Welfare Alberto Brambilla il taglio di spesa complessivo fra il 2008 e il 2013 vale circa 39 miliardi di euro. Taglio che Bruxelles considera acquisito (lo scalone è legge dello Stato dal 6 ottobre 2004). Eliminando lo scalone senza contropartite, si apre una voragine nei conti, dal 2009 in poi. Ma il primo impatto dello scalone nel 2008, ha spiegato il presidente Inps Gianpaolo Sassi, interessa circa 190mila lavoratori-elettori. E la paura, a sinistra, fa novanta.
Coefficienti nel mirino. La riforma Dini del 1995 prevede una revisione decennale dei coefficienti di trasformazione (che convertono in pensione il montante di contributi accumulati durante la vita lavorativa). Revisione che nel 2005 non è stata effettuata perché era stata aumentata l’età pensionabile. Ma se l’età ritorna a 57 anni, bisogna intervenire sui coefficienti, con il risultato che le pensioni dei più giovani sarebbero ancora più basse. Il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale ipotizza una riduzione del 6-8% dei coefficienti. Uun classico caso di «Robin Hood alla rovescia»: per salvare il pensionamento dei cinquantasettenni di oggi, si riducono le pensioni, già basse, dei giovani.
Le donne in salvo. Nonostante godano di un’aspettativa di vita superiore a quella degli uomini (83,7 anni rispetto ai 77,8 anni) le lavoratrici continuano ad avere un regime agevolato.

Ma i numeri dicono che un aumento dell’età di pensione d’anzianità per le donne non risolve alcun problema finanziario del sistema: difficilmente, infatti, le donne arrivano ai 35 anni di contributi necessari per l’anzianità, e la maggior parte di loro va in pensione di vecchiaia a 60 anni. Aumentare i requisiti di anzianità per le donne in cambio di un regime migliore per gli uomini è un’operazione in perdita.

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