Come risolvere i dubbi del Colle sul proporzionale

Paolo Armaroli

Il 13 maggio 1999 c’eravamo anche noi nell’aula di Montecitorio quando si riunì il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, per l’elezione al Quirinale del successore di Scalfaro. E contribuimmo alla elezione di Ciampi al primo scrutinio non già perché questi erano gli ordini di scuderia ma per intima convinzione. Pur nella consapevolezza che non era uomo riconducibile al centrodestra. E non ci siamo pentiti di questo voto. Perché Ciampi non è mai andato al di là dei poteri conferiti dalla Costituzione al supremo magistrato della Repubblica. E per di più è stato ineccepibile come rappresentante dell’unità nazionale.
Tuttavia, nell’ultimo periodo del settennato, un po’ tutti i suoi predecessori hanno dato una interpretazione estensiva alle loro prerogative. E forse Ciampi non fa eccezione alla regola. Intendiamoci, la moral suasion è perfettamente comprensibile. Soprattutto nei riguardi di una riforma elettorale che, qualora fosse rinviata alle Camere, difficilmente potrebbe essere approvata di nuovo prima della fine della legislatura. Sulla riforma elettorale all’esame della Camera il Colle nutre dubbi su tre punti. La mazziniana tempesta del dubbio è cosa buona. Ma altro è il dubbio e altro la palese incostituzionalità che giustifica un rinvio della legge alle Camere. Se inforchiamo le lenti del costituzionalista, possiamo tranquillamente concludere che non riusciamo a vedere manifeste lesioni delle disposizioni costituzionali.
La riforma stabilisce che le coalizioni indicano il candidato premier. A chi? Evidentemente tanto agli elettori quanto al capo dello Stato. L’obiezione che così verrebbe menomato il potere di nomina del presidente del Consiglio da parte del Quirinale è piuttosto stiracchiata. Nel 2001 i nomi dei candidati premier comparvero addirittura sulla scheda elettorale. Né varrebbe ribattere che allora prevaleva il maggioritario e adesso avremmo la proporzionale. Perché essa è corretta da un premio di maggioranza. Del resto, ai tempi della Prima Repubblica, nelle consultazioni al Quirinale i partiti indicavano il nome del premier o una “rosa”. E se c’era concordanza di vedute tra le forze che avrebbero costituito la maggioranza, il capo dello Stato era vincolato a quella indicazione. Tanto è vero che i governi palatini, inventati di sana pianta dal Colle, furono sempre - a cominciare da quelli presieduti da Pella e Tambroni - alquanto chiacchierati.
D’altra parte le soglie di sbarramento differenziate violano forse il principio di eguaglianza? No. Alla luce della costante giurisprudenza costituzionale, a situazioni eguali deve corrispondere un trattamento eguale e a situazioni diverse un trattamento diverso. Il Quirinale obietta poi che per Palazzo Madama il premio di maggioranza a livello nazionale violerebbe l'articolo 57 della Costituzione, secondo il quale il Senato è eletto a base regionale. Ora, il rimedio è presto detto. O il suddetto premio viene ripartito regione per regione o abolito. E la preoccupazione di una doppia maggioranza nei due rami del Parlamento verrebbe superata dalla riforma costituzionale, che prevede un rapporto fiduciario solo tra Camera e governo. Quanto alla rappresentanza delle minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione - ecco il terzo dubbio del Colle - non c’è problema. Perché, con le modifiche appena suggerite, esse avrebbero comunque diritto di tribuna a Palazzo Madama.
Come se non bastasse il Quirinale, ci si mette pure Michele Ainis. Sulla Stampa intravede il pelo nell’uovo. Osserva infatti che nel caso di una terza forza, ci sarebbe un premio di maggioranza stratosferico per la coalizione che ottenesse una risicata maggioranza relativa. Ma questo è un pregio e non un difetto della riforma. Una garanzia che il bipolarismo non andrebbe a gambe all’aria grazie alla presenza di un terzo incomodo.


paoloarmaroli@tin.it

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