Il Risorgimento dei morti viventi

Altro che romanticismo e impegno civile Gli scrittori patrii preferivano il sangue. Un'antologia dei racconti che Croce disprezzava, ma che fecero l'unità linguistica

L’Italia era ancora da fare o lanciava i primi vagiti dalla sua culla di civiltà (e d’inciviltà) mentre loro, quelli che chiameremo (con una digressione pop non troppo fuori luogo, come vedremo) «neri per caso», si baloccavano con storie «gotiche», orrorifiche, deliranti e perversamente fabulose. Eppure, quegli autori non erano intellettuali annoiati o ereditiere a caccia di brividi da inzuppare nel tè con i pasticcini. Erano fieri omaccioni permeati dagli ideali risorgimentali, oppure conservatori illuminati o socialisti di ogni ordine e grado. E ancora, giornalisti rampanti e, diremmo oggi, «impegnati nel sociale»; signore agghindate nella prestigiosa mantella del bello scrivere; scapigliati che l’ebbrezza delle sensazioni forti aveva condotto sul limitare di una «selva oscura» popolata da strane bestie uscite dal ventre di una psiche deviata.

Eccoli, i protagonisti dell’Ottocento nero italiano, da passare in rassegna nell’omonima antologia di racconti (Nino Aragno Editore, pagg. 542, euro 38) curata da Claudio Gallo e Fabrizio Foni e introdotto da Luca Crovi. «Narrativa fantastica e crudele», specifica il sottotitolo, delimitando il campo dell’indagine, per quanto è possibile delimitare un fiume (meglio, un maelström...) in piena. Perché se da un lato il «fantastico» dilaga, quale blob melmoso e appiccicaticcio, dall’ironia proto-splatter di un Egisto Roggero (Le Ofrisie - e le mostruose piante del titolo s’innesterebbero benissimo nella Piccola bottega degli orrori...) al moralismo grottesco e agghiacciante di Savino Savini (si vedano i tre brevissimi brani estratti dal romanzo Il conte Got, con l’atavico e lubrico intreccio di Eros e Thanatos e i sempreverdi temi del memento mori e del vanitas vanitatum), dall’altro il «crudele» può essere o «cotto» al sangue come in L’ossessione rossa di Giuseppe Bevione, dove la parola «sangue» compare 43 volte, in un crescendo molto pulp e poco fiction, oppure a fuoco lento, lentissimo, per esempio alla maniera di Onorato Fava il quale, in La casa bianca (si noti la variazione cromatica), maneggia abilmente un topos destinato a grande fortuna nel Novecento, quello dello scienziato pazzo, facendoci rimbalzare in avanti nel tempo fin quasi al Frankenstein Junior di Mel Brooks...

Roggero, Savini, Bevione e Fava: chi erano costoro? Non proprio dei giganti e poi «neri per caso», come dicevamo all’inizio. Inoltre, decisamente pop, vale a dire efficaci interpreti del gusto che andava diffondendosi non soltanto fra le classi «alte», ma anche in basso, per non dire letteralmente nei «bassi» di Napoli, Firenze, soprattutto Milano. Sull’onda dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, pubblicato fra il 1842 e il ’43, anche le nostre città diventano in breve più grigie, torbide, pericolose e assassine, nelle pagine fogliettonesche degli emuli di Edgar Allan Poe, Gerard de Nerval, Ann Radcliffe e Matthew G. Lewis. Di fronte a questa possente onda lunga proveniente dall’estero, non resse nemmeno l’orgogliosa (e un po’ sciovinista, diciamolo) banchina eretta con largo anticipo da Benedetto Croce. Rivolgendosi ad Arrigo Boito, ’o professore scriveva, come riportano nella postfazione Gallo e Foni: «L’anima italiana tende, naturalmente, al definito e all’armonico. Bene invase e corse l’Italia, dopo il 1815, una nordica cavalcata di spettri, di vergini morenti, di angeli-demoni, di disperati e cupi bestemmiatori, e si udirono scricchiolii di scheletri, e sospiri e pianti e sghignazzate di folli e deliri di febbricitanti. Ma tutto ciò fu moda e non poesia; agitò la superficie e non le profondità, e lasciò sgombre le menti e vigorosi gli animi, che si rivolgevano, allora, alla lotta politica e nazionale. Tanta rumorosa letteratura romantica, e nessun romantico in Italia, tra il 1815 e il 1860».

Dal suo punto di vista, don Benedetto ha ragione da vendere. Ma avevano forse torto gli appassionati lettori alle prese con alienati, vampiri, fenomeni di magnetismo e sconvolgenti spedizioni in Terrasanta? No, quelle erano le vie, impervie nelle trame, quanto facilmente praticabili per stile, lungo le quali l’Italia usciva a fatica e lentissimamente dall’analfabetismo, dandosi un’unità linguistica, prima ancora che politica e amministrativa.

In Ottocento nero italiano, non a caso, troviamo, accanto ai nomi già fatti, quelli di calibri medio-grandi. C’è Maria Antonietta Torriani alias La Marchesa Colombi, con I morti parlano, sagace mix di ironia, gioco linguistico e noir. C’è Giulio Piccini alias Jarro che con il romanzo I ladri di cadaveri (1884) contende a Il mio cadavere (sarà un caso?), di Francesco Mastriani (1853) la palma del primo «giallo» italiano e che qui è presente con il piccante L’ultimo giorno di Carnevale, ambientato in un convento dove le suore familiarizzano spesso e volentieri con il peccato... C’è, appunto, Mastriani, e poi Emilio De Marchi; un Emilio Salgari classicamente marinaresco; Vittorio Bersezio, per l’occasione lontano anni luce, con La parola della morta, dall’umorismo del Fischietto, il giornale che guidò; e poi le dark ladies per eccellenza: Carolina Invernizio e Matilde Serao.
Presentati nell’ordine cronologico di pubblicazione (il primo è del 1827, l’ultimo del 1927), i racconti mutano progressivamente nel tono che si fa più secco e perentorio, potando i rami secchi ottocenteschi, e fatalmente assumono una coloritura già cinematografica.

Così Salvatore Di Giacomo, sì proprio lui, il re della canzone napoletana, abbandonate le dolci e gaudenti atmosfere partenopee di Marechiare, scandisce ore angosciose con L’orologio dello zio Sigismondo. Una livella che non ha nulla a che fare con Totò.

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